Quando ho iniziato quattro anni fa, non credevo che tutto
finisse così presto.
A dire il vero certe volte è stato così lento e duro il
passare del tempo che avrei voluto essere trasportato direttamente al giorno
dell’ordinazione (perlomeno quella diaconale…) perché la vita del seminarista,
anche se non sembra, è un po’ difficile; soprattutto per chi è in là con gli
anni come il sottoscritto. Ma va bene così, perché non si può diventare preti a
buon mercato.
Avvicinandosi il primo giorno del quinto anno di Teologia,
sono principalmente due le cose sulle quali convergono i miei pensieri. Anzi
tre.
La prima è iniziare il mio ultimo anno, non nel seminario di
Firenze in cui sono stato insieme ai miei compagni per quattro anni, ma nel
seminario di Pistoia. Un seminario a Quarrata, praticamente vivendo in casa del
nostro rettore e all’interno di una realtà parrocchiale… Roba da far
accapponare la pelle. Dopo che il vescovo Fausto ha preso questa importante
decisione, ho sentito un brivido dietro la schiena, quello tipico che ti prende
quando lasci una strada sicura per qualcosa che inizialmente non è certo, ma
che poi, consegnandosi a chi ti guida, si può rivelare un percorso ancora più
ricco e bello del precedente.
Poi a me, si sa, piacciono le storie di avventure
incredibili.
La seconda cosa riguarda il mio servizio pastorale. Chissà
cosa mi diranno di fare, vivendo anche nel trambusto di un trasloco e cercando di
riorganizzare insieme (e da capo) un nuovo seminario in diocesi. Staremo a
vedere. E lo dico con tutta quanta la serenità del mondo, perché ormai son
certo che qualunque cosa accada casco sul morbido.
La terza cosa è che la mente viaggia; nel senso che, un anno,
fa in fretta a passare. E poi? Se ci penso mi viene altri brividi. La cosa che
mi tranquillizza è come dicevo prima, la sicurezza di cascare sul morbido. Questo
perché l’anno scorso, come servizio pastorale, ho accompagnato il vescovo in
vari posti e in varie parrocchie. Qualche volta sono potuto anche restare agli
incontri con le comunità parrocchiali dove presentavano le varie opere
pastorali. Quello che la gente riesce a fare partendo dal proprio desiderio. Mi
sono felicemente accorto che la Chiesa che è in Pistoia, non è sterile. Anzi.
E’ feconda come non lo avrei mai immaginato. Piccole opere fatte col cuore, nel
dedicarsi ai giovani, agli anziani ed ai malati, agli stranieri, alle persone
in difficoltà economica ma anche in difficoltà umane e spirituali, quelle che
fanno piangere la notte quando nessuno ti vede. Il tutto svolto nel più
completo silenzio, nel soffio di una brezza leggera.
Che bella la Chiesa. Penso alla fedeltà di chi confessa da
anni nella propria parrocchia magari sentendo sempre le stesse cose, o magari
come chi confessa in cattedrale nel buio confessionale, senza neppure vedere la
faccia di chi ti si inginocchia di lato e senza sapere se alla fine ti regalerà
o meno un sorriso per quello che gli hai detto; penso a chi nelle fredde notti
si alza per portare una parola di conforto e di speranza a chi sta per vedere
il volto di Dio ed a chi non lo vede per nulla, o chi nel più caldo dei giorni
cammina per due miglia o tre con chi si sente solo; penso a chi tira fuori dal
proprio portafoglio i soldi per aiutare un padre di famiglia che non arriva a
fine mese. Tutto nella certezza che il mondo, infine, non viene salvato da noi.
Che bella la Chiesa. Quella vera, quella silenziosa, quella che non recrimina
niente e che non si aspetta niente in cambio, quella feconda che ancora oggi ha
da dire molto alla gente. A tutti.
Mi sono accorto che tutto questo è portato avanti da preti
che sono pieni di limiti come tutti gli esseri umani, ma nonostante le proprie
povertà hanno tutti un dono diverso, come ci dice anche san Paolo. Questo è
veramente interessante. Tutti non fanno tutto, non possono. Anche quello più
lontano da te per carattere, ha qualcosa che ti può dire, insegnare. Uno magari
è portato per stare a contatto con i malati, un altro con i giovani, un altro è
bravo con le famiglie, un altro per la catechesi. Il volto di Cristo traspare
dalle loro persone in molti modi, tutti diversi, tutti interessanti. Ho capito
che non c’è un solo modo di fare Chiesa, ma è necessario fissare lo sguardo nei
suoi occhi, sennò tutto diventa frammentato. Mi viene in mente il mantello di
Cristo, senza cuciture, fatto da fili diversi; ma chiunque lo toccava riconosceva
la persona e veniva guarito, come la donna che non smetteva di sanguinare.
Casco sul morbido. La destinazione per un prete è quello che
fa più paura perché non sa quello che trova. Spesso si vede solo la melma. Ma
se ovunque c’è oro sotto la melma basta solo sporcarsi le mani e tirarlo fuori.
Basta affidarsi. Ovunque mi sarà detto di andare nel prossimo futuro, dovrò
solo preoccuparmi di portare la mia umanità, povera e piena di limiti, e
lasciarmi sorprendere in ogni istante da Cristo che mi viene incontro nel volto
di chi ho davanti. Ultimo ed emarginato, ricco o povero, di un altro prete o
vescovo che sia.
E questo è davvero una vertigine.
Gianni