giovedì 23 giugno 2022

La disciplina del cuore


C’è una bella espressione in inglese che ci aiuta a leggere l’immagine del Cuore sotto una luce un po’ differente da quella del pensiero comune: learn by heart traduce infatti il nostro “imparare a memoria”. Ora, mentre l’italiano ci richiama l’aridità delle tabelline, o la fatica di snocciolare, uno dietro l’altro, nomi, date o versi difficili, l’inglese ci suggerisce che quel mandare a memoria può avere un valore più profondo, di qualcosa acquisito una volta per tutte, che riecheggia, da qualche parte in noi, come il battito del cuore. Festeggiamo il Cuore di Gesù ma quale cuore abbiamo in testa? 

Cuore è una delle parole, insieme a quelle con cui è solito fare rima, forse più abusate. “Al cuor non si comanda”, “con il cuore”, “lo vuole il cuore”, “lo dice il cuore”, potremmo continuare a lungo per notare l’evidente protagonismo del “cuore” in molti aspetti del nostro mondo. Un cuore però piuttosto diminuito, assunto nella sua dimensione meramente affettiva o, meglio, emotiva. Potremmo dire sentimentale, ma suona desueto, oltre al fatto che parlare spesso di sentimenti non significa affatto che li si riesca a distinguere dalle emozioni. Il parlare diffuso del cuore galleggia spesso in superficie, là dove le “ragioni del cuore” assumono la forza dell’imperio,  per cui il cuore tiranneggia, si esprime invocando diritti e scambia l’arbitrio per l’amore.

Chi ama, o almeno ci prova, sa che amare non è questione di un attimo. L’amore non è un’emozione, è una scuola. Ci educa, chiede tempo, è gratuito ma non scontato, semplice ma non sempre facile. Allo stesso modo il Sacro Cuore di Gesù non è né roba da suore o deliquio romantico, neppure estenuata sensibilità barocca, per quanto si spieghi bene con la mania degli emblemi in voga a quei tempi. È certo una parte del tutto, non una vivisezione di Cristo. 

Però questo cuore, il Cuore di Gesù, quel cuore che l’iconografia ci mostra nel profilo anatomico dell’organo isolato, coronato di spine, ferito, sanguinante e acceso da una fiamma, mi sembra che si spieghi alla luce di una dimensione teologica più originaria ancora dei misteri dolorosi della vicenda di Cristo a cui rimandano quei segni. Che è poi la radice con cui si spiega l’intera opera di redenzione realizzata da Cristo, il Figlio di Dio. È la radice di una disciplina trinitaria d’amore, propria del Dio che è Padre che genera, Figlio amato ed amante nell’obbedienza, Spirito di comunione che stringe il Padre e il Figlio e del loro amore è testimone e dono reciproco.

Ci aiuta il brano del Vangelo proposto per questa solennità, dove Gesù racconta la parabola della pecora smarrita. Il racconto è noto, ma la domanda con cui Gesù avvia la narrazione non è affatto scontata. Se la prendiamo sul serio arriva come uno specchio inatteso a svelare la nostra meschina misura. «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?» Chi di noi? Noi parliamo di rischio calcolabile, di speculazioni finanziarie e danni collaterali, noi che siamo sempre pronti a conteggiare quanto ci danneggiano le disgrazie altrui, saremmo così pronti a partire? A rischiare il tutto per tutto quando il 99% del nostro capitale è depositato in un conto offshore? 

Altrettanto imbarazzante la smania di far festa del pastore che, dopo aver trovato la pecora va a importunare chiunque per dire: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Atteggiamento sopra le righe di chi, per una sola pecorella, fa festa come se ne avesse recuperate 100, ma che pure non parla della pecora come uno dei tanti beni del suo patrimonio (non “quella che avevo perduto”), bensì con la consapevolezza della sua irripetibile unicità («che si era perduta»). Alla fine Gesù non parla più per figura: «così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione». 

Riconoscere l’unicità preziosa della persona del peccatore, prendersi la fatica e il rischio di andarlo a cercare, recuperarlo senza risentimento, introdurlo alla comunione dei fratelli con gioia, sono atteggiamenti che non parlano di un cuore che agisce d’istinto, che batte l’attimo e s’impenna nella passione. 

La parabola ci parla di un cuore che ricorda e sa quel che vuole, se proprio vogliamo utilizzare le classiche immagini trinitarie di intelletto, memoria e volontà. Il Cuore di Gesù lo voglio provare a leggere così, come un cuore che è isolato, estrapolato dal corpo perché senza coperture, spogliato della carne e delle ossa che lo nascondono e proteggono, un cuore che non batte perché motore di un meccanismo più ampio, ma un cuore privato di tutto, anche del suo corpo, che batte gratuitamente, esposto alle ingiurie e al rifiuto, alla violenza e alle ferite. Un cuore così perché sa quel che vuole. E la sua volontà è amare chi è oltre il suo corpo, manifestare che batte per tutti, specialmente per quanti sono lontani da Lui. La sua volontà è come un fuoco che brucia e infiamma nell’intimo. È un cuore che ricorda perché costantemente ferito, perennemente aperto sul mistero di libertà che può separarlo dagli uomini. La ferita del cuore di Gesù ricorda perché ha la nostra forma, è lo spazio in cui l’uomo può ritrovare il suo posto. In quel cuore, soltanto in quel cuore, ritrovo me stesso, il mio profilo completo e la mia misura reale. 

Un cuore così gli uomini non ce l’hanno. Però possono lavorarci, con quella disciplina d’amore che insegna il Vangelo, fino a impararlo a memoria, learning by heart.