lunedì 30 giugno 2014

L'altra bellezza


per Simone



Sulle terrazze romane, tra il crepitare degli spiedi e il fumo della griglia, si consumano banchetti di fine anno accademico. Parole e commenti si perdono tra un boccone e una risata negli sguardi e nelle menti svagate, con la sensazione di sentirsi già altrove. Tutt’intorno c’è la bellezza della città eterna abbandonata all’abbraccio della sera di giugno. Il giorno se la prende comoda e cade senza fretta tra il fasto trasandato di monumenti, basiliche, fontane e antichità. Così, vicini più o meno immaginari, gettano meglio le loro occhiate sull’insolito party degli insoliti vicini. A chi assimilare la variegata truppa che vive dirimpetto? Questa strana gioventù che abita nel cuore di Roma, tra le chiacchiere e una sigaretta dondola sulla terrazza, studia (sembrano dirlo le lampade accese in piena notte sulle scrivanie), prega (nel vicolo arriva l’eco puntuale dei canti) e mangia (sembra dirlo l’uscita per il caffè alle 14 meno un quarto). Strana gioventù che cresce nella bambagia di un mondo parallelo e attraversa, come sopra un colorato pullman turistico, le meraviglie dell’Urbe, un passo e forse più, sopra le preoccupazioni normali della gente normale. Di là dal vicolo, sopra e sotto il terrazzo in realtà, giovani e meno giovani attraversano insieme le difficoltà e i pregi normali di vite normali, ma con una scelta di fondo, o almeno un’aspirazione decisamente alternativa. Giovani come gli altri, con le tare generazionali e le fragilità delle loro generazioni.



Più tardi, quando la notte muove i primi silenziosi passi, la luna piena illumina la calda notte romana per una lunga passeggiata digestiva. In pieno centro, sul Campidoglio e intorno ai fori non c’è nessuno. Il cuore della città è deserto. 
Altre terrazze privilegiate festeggiano a modo loro il fine settimana, concerti all’aria aperta si consumano tra i declivi del Palatino, divertimenti volgari si consumano dietro le finestre dei club esclusivi. Salire e scendere tra pietre antiche, attraverso la bellezza strepitosa più celebrata che amata della città è certo una grazia di per sé. Tra queste stesse mura però, nella città vuota, in angoli neppure troppo nascosti si rincantucciano gli invisibili, i senza dimora che vivono l’ennesima vita parallela. Strana umanità che non dialoga se non a tratti o a monosillabi con il mondo ‘normale’. L’arte, la storia, il ‘patrimonio’, accanto a loro sfumano in concetti astratti, porti sicuri per i nuovi gnostici di oggi, illuminati membri della chiesa, tecnici di una bellezza che resta sempre ambigua e molto umana. La bellezza delle pietre è importante, ma è soltanto il primo gradino della bellezza che ci è dato di comprendere. Mescolata alle miserie e ai capolavori, frammista a ciò che è banale e senza qualità, c’è un’altra bellezza che è grazia e chiede di essere colta con gli occhi della fede. 

Il foro giace inerte nel silenzio, finalmente libero dai visitatori, sospeso negli sguardi vagheggianti di americani in libera uscita alcolica e coppiette in cerca di romanticherie. L’arco di Settimio Severo emerge come un pachiderma secolare dalla piana di rovine, lasciando leggere perfettamente i suoi rilievi brulicanti alla luce della luna. Racconta di glorie d’armi in terre lontane, le stesse dove in questi giorni rotolano teste e muoiono a migliaia dove, giusto adesso, splende la medesima luna.

Il passo rallenta, mentre il pensiero, toccato dagli orrori della violenza fanatica, fatica a mettere insieme la pace di Dio e la lucida strage predisposta in suo nome. Dall’angolo, al termine dell’alto muro, spunta il fronte ampio e disteso di una chiesa ancora aperta. Dentro, avanzando piano piano nella penombra c’è una cappellina dove inaspettatamente si adora anche di notte. Un’altra insolita umanità trascorre sulle panche il tempo in preghiera, inginocchiata tra lacrime e bisbigli a tu per tu di fronte al Santissimo esposto.


A questa insolita bellezza si adeguano la vista e l’udito, perfino l’olfatto ed il tatto. Essa esprime la coerenza di un’esperienza che tutto tiene e che, nel cammino inevitabile e necessario della crescita – ricorda un amico – passa dal soggettivo all’oggettivo. La fede introduce a questa bellezza che non ha bisogno di manuali, guide forbite o conoscenze specialistiche. La preghiera non porta fuori dal mondo, ma conduce, mano a mano nelle profondità del reale. Come a giri concentrici, lenti ma sicuri, ricorda volti e parole, illumina passi e discorsi, fa scoprire tesori e miserie. Basterebbe ripensare al Padre Nostro, la preghiera (l’unica!) che ci ha insegnato Gesù, dove ogni affermazione tiene insieme cielo e terra, con una prevalenza per la terra e per ciò che riguarda la nostra relazione con l’Altissimo.

Nel tabernacolo splende indifesa la Sua presenza, la stessa che vediamo sparire dietro i volti di chi si comunica durante la messa. Affidata alle mani -mani rotte dal tempo, curate, tremule o sottili, mani di lavoratore con le unghie sporche, mani di bambino o di vecchie signore dal sapore di borotalco-, ma anche ai denti, all’alito pesante e ai pensieri di un’assortita umanità di cui non riusciamo che a cogliere un abisso misterioso e irripetibile.


Come loro anche i seminaristi accolgono questa bellezza in forma di pane. Ogni giorno la stessa e incommensurabile bellezza. Ogni giorno è il Signore che entra fisicamente nella nostra vita quotidiana. Poi, dieci o quindici minuti più tardi, via a far colazione o a desinare. Vengono le vertigini a pensarci, ma nasce soprattutto la consapevolezza che è sempre tempo di ringraziare, specialmente adesso, alla resa dei conti di un altro anno di formazione.

I giorni, i mesi, gli anni di formazione trascorrono in fretta. Provare a raccontare quel che accade tra un mese e l’altro a volte diventa quasi complicato. Abbiamo pregato, siamo stati a lezione, abbiamo mangiato, meditato, svolto attività pastorale ..e poi? Eppure, anche per i più distratti, ogni giorno custodiva e custodisce un dono, ma un dono senza effetti speciali, dall’apparenza dimessa, un dono grandemente piccolino che chiede di essere visto ed accolto con la fede.

La bellezza delle cose piccine, dalla misura quotidiana, ha attraversato anche i fasti più cattolici dell’Urbe. Tra la folla smisurata che invadeva Piazza San Pietro e via della Conciliazione nel giorno indimenticabile delle due canonizzazioni, ad esempio, la celebrazione è filata liscia come una messa del tempo ordinario. Anche l’omelia del papa era particolarmente -quasi imbarazzantemente- castigata e orientata al cammino concreto della Chiesa. Il mondo era connesso, ma per una preghiera semplice. Così, quando è arrivato il momento del silenzio nessuno fiatava, restando in raccoglimento per irripetibili momenti di raccoglimento globalizzato.


È lo stile del papa che ci confonde le idee: quando si aspetterebbero faville scenografiche il tono è dimesso, le parole poche e sobrie, poi, specialmente tra la gente, nel corpo a corpo dell’incontro e della pastorale, una girandola di attenzioni, gesti, espressioni umanissime e sorrisi luminosi. C’è qualcosa di evangelico in questo ribaltamento che lascia tutti un po’ spiazzati, come quando Gesù mette in crisi farisei e benpensanti di ogni tempo. Il papa riconduce all’essenziale, alla libertà fondata su Gesù Cristo e lo haricordato anche ai vescovi, senza parlare di programmi o strategie: «Chiediamoci, dunque: Chi è per me Gesù Cristo? Come ha segnato la verità della mia storia? Che dice di Lui la mia vita?». Così il papa invita a puntare all’essenziale e ad una metodologia creativa ed artigianale per vivere lo straordinario nell’ordinario sotto la guida dello Spirito Santo: «a noi cogliere il soffio della sua voce per assecondarlo con l’offerta della nostra libertà».

Nell’ordinario il seminarista attraversa un’esistenza separata e comune allo stesso tempo. Pellegrini al santuario di Maria Goretti poi spiaggiati sulla sabbia nazionalpopolare di Nettuno. I seminaristi d’oggi attraversano così le loro piste più o meno pastorali, in bilico tra il secolo ed il sacro. Altri, più ferrati in liturgie, passano dalle sacrestie alle periferie digitali di facebook, i più devoti stanno in bilico tra i pii esercizi e youtube, di fronte a chi va a cena fuori poi, ogni perplessità, se veste secolare, cade davanti alla ‘faccia da prete’. Seminaristi quasi tutti desiderosi di cambiare il mondo per il Signore, ma tutti con la voglia di cambiarlo a modo loro. «Prima c’è la novità, è la novità delle cose, e dobbiamo essere pazienti con noi stessi. I primi tempi è come un tempo di fidanzamento: è tutto bello, ah, le novità, le cose…; ma questo non dev’essere rimproverato, è così! (…) Non rimanere chiusi e non essere dispersi». Il papa parla ai seminaristi con sano realismo e conclude, senza troppe indicazioni, con uno stringato: «poi, fare sul serio!». 


Il sommo pontefice racconta le vicissitudini vocazionali di ogni seminarista che si dibatte, più o meno come ogni giovane, tra contraddizioni, diversi registri, talvolta adolescenzialismi non ancora superati. Ma quando la strada della vocazione avanza (e non cade nel dramma dell’autoinganno o in comunitari corto circuiti) si tratta di «fare sul serio», allora anche gli occhi più miopi si affinano alle delicatezze della grazia e il Signore balza dalle righe delle Bibbia a quelle delle vita per ricondurre ad unità ogni cosa. Comincia a funzionare la dinamica dei ‘quattro pilastri’: «la formazione spirituale, la formazione accademica, la formazione comunitaria e la formazione apostolica. È vero che qui, a Roma, si sottolinea la formazione intellettuale; ma gli altri tre pilastri si devono coltivare, e tutti e quattro interagiscono tra di loro».
Quando l’originario si rivela (come chiamare quell’intuizione semplice e immediata, ma così indisponibile?) funzionano i quattro pilastri o forse si compie per tutti l’esperienza di un’esistenza piena, come la vuole e la pensa il Signore per ogni suo figlio. È l’intuizione di un capolavoro che ci supera, ma in cui siamo inseriti personalmente. Linee, profili, colori, parole, suoni, tempi si combinano insieme nell’armonia di un istante che lascia intravedere l’unità ineffabile di tutte le cose. Sono azzeccate le parole con cui Giovanni Paolo II parlava della bellezza dell’arte che «interpreta la realtà al di là di ciò che percepiscono i sensi: nasce dal silenzio dello stupore, o dell’affermazione di un cuore sincero. Si sforza di avvicinare il mistero della realtà. L’essenziale dell’arte si situa nel più profondo dell’uomo, in cui l’aspirazione a dare un senso alla propria vita si accompagna a un’intuizione fugace della bellezza e della misteriosa unità delle cose».

Trascolorano, sotto il peso del sonno, vaghe intuizioni sull’arte divina a cui ci apre la fede. Così passa il tempo sulle panche di fronte al Santissimo esposto e nella mente passano, uno dopo l’altro, i volti dei compagni di seminario e collegio. Che preti saremo tra non molto tempo? In che modo entreremo in quel capolavoro che ci supera? Sapremo essere uomini di unità? Uomini capaci di tenere insieme le cose del mondo e quelle del cielo? Uomini capaci di costruire artigianalmente l’unità tra noi e tra la gente?


Sul sagrato, uscendo dalla chiesa, una giovane coppia discorre di sé, un attempato signore rinfresca le membra inerti, povera gente si stende sulle panchine stretta ai suoi sacchetti. Tra loro, con un sorriso luminoso e sincero, l’accattone prima seduto sull’uscio di chiesa alza la mano in un cordiale gesto di saluto accompagnato da un festoso e inaspettato «Buonanotte!». Chi pensa ad un saluto fatto bene, ad un saluto detto per dire quello che dice, allora può capire qualcosa di quel «Buonanotte!».

La città splende deserta sotto la luna ed i suoi abitanti nascosti chissà dove chiudono in sé pene, gioie e malumori quotidiani, con la difficoltà di riannodare le cose della vita. Eppure, alla luce di un’altra bellezza, concluso un altro anno colmo di grazia quotidiana, accanto alla bellezza sensibile dell’arte e della storia, tutto può risplendere nell’unità di un misterioso capolavoro che ci sovrasta ma in cui siamo compresi, all’eco di un limpido e inaspettato «Buonanotte».