domenica 23 dicembre 2012

Segnalazioni Stonate 2012 | IV Domenica di Avvento


 Quando la città è fredda, avvolta dalla nebbia e dal buio anche in chiesa si gela. Specialmente in quelle antiche e grandi chiese romaniche delle nostre parti, con le pareti nude e spogliate da restauri radicali. Così come sono sembrano fatte apposta per congelare un passato irrecuperabile e mettere un’ipoteca sulla bellezza. Ma senza preghiera, senza una candela accesa, senza la presenza nel tabernacolo neppure lì ci sarebbe bellezza. La bellezza autentica  porta in sé una promessa che non è determinabile a tavolino, non si esaurisce nell’armonia, nella perfezione della forma o nella correttezza della proporzione.  Si diceva, però, delle fredde chiese pistoiesi. Ancora stordito dal freddo umido mi  acquatto su una panca e di colpo mi accorgo che la visita non è per caso. Dentro c’è una scultura stupenda che racconta il Vangelo di questa quarta e ultima domenica di Avvento. Una vecchia è inchinata davanti a una giovane: un’adolescente dal volto puro ed acerbo, ma dallo sguardo consapevole. Elisabetta in ginocchio stringe le braccia alla giovane parente che porta in grembo il suo Signore. Non c’è niente che esprima meglio la promessa che è racchiusa nella bellezza. Ogni bellezza è gravida di mistero. Ancora non mi è del tutto chiaro, ma c’è un nodo tra bellezza, promessa,  ispirazione e santità che fiorisce da questo delicato episodio del Vangelo di Luca. Nelle due donne si agitano due esistenze misteriose e già dialoganti. I due bimbi, ancora nel grembo delle madri si riconoscono, segnalano la loro presenza, rivelano la loro vocazione prima di essere venuti al mondo. C’è una forza dall’alto che suscita questo dialogo, che scavalca le parole ed entra nella carne, nell’umiltà delle cose terrestri. Il Vangelo non parla fuori dal mondo, ma dal di dentro. Non rivela i meccanismi del cosmo  o dell’atomo, ma li colloca nel piano divino, che è in fondo tutto quello che conta e che non si può sempre spiegare a parole se non con analogie.
Nelle due figure in terracotta non ci sono aureole, né colori, né gli attributi tipici dei santi. Soltanto una giovane e una vecchia. Anche il nostro mondo è privo di “tag” o di spicciola segnaletica spirituale,  e dal profondo dell’essere di quelle due donne è la forza dello Spirito che suscita santità e detta l’ispirazione. Così, ci dice Luca, è nata una delle poesie più recitate al mondo: quel Magnificat che si dipana da un cuore traboccante fiducia e consapevolezza dell’amore di Dio. Dio non soltanto mantiene le sue promesse, ma  le supera!

Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.

E’ difficile trovare una brano musicale che rifletta questa bellezza.  Qui ci vuole la fede, si entra nella santità. Ma ancora prima di scrivere confesso di aver avuto nella mente  e nelle orecchie la bellezza inesprimibile di cui parla questo brano  intitolato “Daydreaming” . Estratto dall’album Wild Go (2010) è forse il pezzo più noto di questa band statunitense che porta un nome degno di metallari incalliti. I DARK DARK DARK, invece, propongono un suadente chamber-pop folk, che è proprio tutta un’altra cosa dal gusto per i riff di chitarra e il richiamo istintuale di molto ‘roccherrol’. La voce romantica e sognante della cantante Nona Marie Invie accompagna melodie dai toni struggenti e dagli sviluppi armonici classicheggianti.  La segnalazione merita anche per la qualità del videoclip che impreziosisce e segue perfettamente lo sviluppo del testo . Il risultato, in questo “sogno ad occhi aperti”, è poeticamente riuscito. C’è una bellezza, quella della natura, che racchiude qualcosa di stupefacente e inesprimibile. E’ la santità della creazione?

Se sapessi quanto è importante per me.
La dove l’aria è così tersa
Se sapessi quanto è importante per me.
Punta lo sguardo ad ovest
Ricordami le grandi montagne
 O, vagherei per miglia
Mi sono seduta laggiù e mi sono sgranchita la ossa.
Se sapessi quanto è importante per me.
O tutto ciò che non si può esprimere..
E’ una terra estesa a perdita d’occhio
Dove soffia solo il vento
Correrei più veloce che posso
Una terra che si perde a vista d’occhio
La sto cercando
Dove soffia solo il vento
Se sapessi quanto è importante per me.
Lo vedresti anche tu.
Oh tutto ciò che è inesprimibile.


Il Vangelo di questa ultima domenica di Avvento ci invita a fare il passo successivo. Anche nell’uomo si può contemplare questo mistero inesprimibile. Se solo sapessimo quanto è importante! Se lo crediamo anche noi lo vedremo. Tutto ciò che è inesprimibile, in fondo, è misteriosamente riassunto nel Dio che si è fatto carne. 

mercoledì 19 dicembre 2012

Segnalazioni Stonate 2012 | III Domenica di Avvento


Presa carta e penna decisi di fare il ritratto di mia sorella. Forse era al tempo della scuola media, forse quando ero ancora alle elementari,ma nonostante una certa dimestichezza con le matite e i fumetti il risultato lasciava molto a desiderare. Piuttosto che il profilo di una ragazzina sembrava quello di una donna sui trentanni; un’età favolosamente distante, del tutto inimmaginabile in quel momento. Così, per giustificarmi  aggiunsi sotto il disegno la seguente nota: “Se tra 20 anni mia sorella assomiglierà a questo ritratto mi pagherà cinquantamilalire”. Presi il foglio, ci feci una bella firma quale vidimazione solenne e lo attaccai sul retro di una quadro appeso nel corridoio. Già immaginavo di dimenticarmene presto e di ritrovare per caso, decine d’anni dopo, un foglietto ingiallito con una strana clausola. Oggi le lire sono sparite insieme al disegno, ma mia sorella ha un aspetto decisamente migliore del mio scarabocchio. Eppure,  davanti a quel disegno,  ricordo di essermi domandato quasi con ansia : “che aspetto avremo crescendo? Che cosa faremo tra vent’anni?”
A quella età ci si può permettere un’attesa trepidante come quella che precede il Natale. Oggi guardo i bambini del catechismo e formulo su di loro le stesse domande. Che saranno da grandi? L’esperienza insegna che quanto siamo da piccoli, in un modo o in un altro, lo saremo anche da grandi. Capita anche ai seminaristi: tali seminaristi, tali preti.  Il futuro secondo l’uomo non riserva dopotutto, grandi sorprese. Guardo i piccoli pregare in parrocchia con gli occhi chiusi e la manine giunte. Custodiranno la fede? Continueranno a pregare?  Incontreranno davvero Gesù? Soltanto il futuro secondo Dio genera novità. E’ la seconda nascita, quella nello Spirito, quella dall'alto. A Nicodemo, se ricordiamo Giovanni (3, 1-13), il concetto non appariva molto chiaro, ma a lui, come alle folle radunate dal Battista, qualcosa doveva pur essersi agitato nel cuore. 


Faccio quello che mi va.
Non me lo dici tu.
Non sei la mia mammina.
Non ci provare nemmeno.
Sparisci ora.
Il mondo reale è crudele!
Ti rispedisco a scuola.
Il mio psicoterapeuta
dice che devo crescere adesso
(qualsiasi cosa significhi).
Che cosa sto per diventare? 
Che cosa sarò quando sarò cresciuto? 
Mi riconoscerò?
Il seme gettato cresce da sè stesso
ma non sappiamo come.

Per questa terza domenica di Avvento mi servo delle parole di un'allegra brigata desiderosa di salvare il mondo. I Danielson Famile, ormai da quasi vent'anni propongono un vangelo indie-rock pingue di buoni sentimenti, predichette semi-infantili, preghierine ed effusioni stile-pentecostale. Ma tra i loro brani ci sono anche meditazioni non banali sulla variegata fenomenologia umana. Amore, amicizia, difficoltà relazionali abbondantemente condite da variazioni improvvise, coretti scolastici, strumentazione assortita. Il falsetto di Daniel Smith - il capofila di questa piccola tribù- può risultare a qualche orecchio fino piuttosto sgradito, ma non è altro che la sigla di uno stile molto originale. Prendere o lasciare. Per questa grande famiglia allargata non manca neppure la divisa con distintivo a forma di cuoricino. Insomma, una simpatica Unitalsi del pop-gospel che mi offre spesso motivi di riflessione. Cito qualcosa dal loro ultimo singolo "Grow Up", estratto dall'album "Best of Gloucester County" (2011). 


E' una piccola descrizione del passaggio all'età adulta in cui trova spazio la citazione del vangelo di Marco (4, 26-29). Un brano che, forse con qualche spintone, si può avvicinare al Vangelo di questa Domenica. "Che dobbiamo fare?" La folla porta nel cuore un'attesa. Ma nella risposta del Battista non c'è alcuna indicazione strepitosa o troppo puntuale sul futuro. Continua a far bene quello che fai. Custodisciti sulla giusta via: il Signore è vicino, al resto ci penserà Lui.  Quando il seminatore getta il seme il chicco muore. Giovanni, la voce, prepara la Parola. Ma se la Parola non conduce ad una piccola morte non è possibile rinascere. Per chi custodisce un'attesa nel cuore, per chi ha l'animo inquieto,  il tempo che separa la morte dalla rinascita - il tempo della morte del chicco - è il tempo di Giovanni. E' il tempo dell'Avvento. 
Che dobbiamo fare nel frattempo? Lo Spirito chiede il nostro consenso. Lasciargli spazio e rendersi disponibili alla sua azione non è sempre facile, ma il ritratto che Dio ha preparato per noi è di gran lunga migliore e sorprendente dei nostri scarabocchi terrestri. Forse nemmeno ci riconosceremo. Ma nel frattempo? 

Togli via ogni ramo
che non porta frutto.
Pota tutto il resto.
Dammi il meglio. Per favore?

sabato 8 dicembre 2012

Segnalazioni Stonate 2012 | II Domenica di Avvento


Dov’è Dio? Dove lo incontro?
In Seminario e/o in Collegio! Lì lo troviamo di sicuro. Così almeno può pensare il cristiano medio, ma forse, paradossalmente, ne è ancora più convinto chi più traballa nella fede. Possiamo esserne sicuri? A dire il vero Dio si è spesso ritirato là dove non andremmo a cercarlo. Così sembra suggerire la lunga zoomata storica che ci propone il Vangelo di Luca in questa Seconda Domenica di Avvento. “Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare..” La mente si spinge già verso Roma Caput Mundi. Invece occorre una decisa sterzata ad oriente verso gli oscuri territori dell'Iturèa, della Traconìtide e  dell'Abilène. Un terzetto che sembra uscito dall’edizione più difficile del Trivial Pursuit. Non aiuta l’orientamento neppure l’indicazione di una città perché Luca punta dritto nel deserto, dove “la parola di Dio scese su Giovanni”. Dio è dissociato dalle geografie del buon senso o del senso comune, ma può farsi trovare anche più vicino di quanto possiamo immaginare.
Nel palazzo dirimpetto al Collegio ferve la vita condominiale. In attesa dell’ascensore punto lo sguardo fuori dalla finestra e scopro il pensionato in pigiama e mutandoni concentrato ad alzare e aggiustare finestra e zanzariera. All’ultimo piano la vita scorre come in un reality senza audio. Si festeggiano compleanni, si consumano cene tra amici, ogni tanto si guarda la televisione, qualcuno accarezza un cane e un altro giovane condomino dondola sulla porta parlando al telefono. Parole senza qualità si infrangono sui vetri degli appartamenti. Gesti subito dimenticati moltiplicano l’entropia. Così vite parallele scorrono a miliardi sul pianeta. “ci sono cose che dico che non significano niente comunque .. e ci sono cose che faccio che non significano niente comunque

There are things
That I say
That don't mean a thing anyway

And there are things
That I do
That don't mean a thing anyway



La realtà del peccato priva di connessioni gesti e parole. Tutto scorre disordinatamente. Poi, quando la luce si spenge e le serrande si abbassano, ogni cosa è riassorbita nel nulla. Ho riportato più sopra le parole di Micah P. Hinson, noto folk-singer di Abilene. Non già il territorio citato da Luca, ma la cittadina statunitense da cui proviene questo cantautore dalla faccia a ragazzino e la voce che non ti aspetti. Dal grigio di quest’altra Abilene è presto precipitato in un abisso di dipendenza e depressione dopo la partenza di una turbolenta innamorata. Micah P. Hinson ne è uscito con un disco di rara intensità intitolato “The Gospel of Progress” (2004) da cui prendo spunto per accompagnare il Vangelo di questa Domenica. Ancora una volta, dunque, il tempo della prova è stato fecondo. Capita spesso così. Nel vuoto risuona più forte l’appello del Battista. Nel dramma le profezie acquistano tutto il loro spessore. Nell’abbandono scaturisce il grido che diventa preghiera. Non c’è sicurezza che tenga, se non nel Signore. Per questo abbiamo bisogno di ascoltare di nuovo l’invito pressante del Battista: “Preparate la via del Signore. Raddrizzate i suoi sentieri!” Quando la vita si smarrisce il peccato confonde il senso delle cose. Spezza le connessioni tra me e gli altri. Tra me e Dio.
Dalle finestre del Collegio le esistenze parallele dei condomini vicini, quelle degli uomini che sciamano nelle piazze, nei supermercati e nelle chiese, scorrono apparentemente senza senso.
Ma tu non dimenticarti di me”. Dio si ricorda. I nostri gesti e le nostre parole acquistano profondità in Dio. Anche Lui, dopotutto, si è affidato ad una voce: “Voce di uno che grida nel deserto”. Dio ascolta, Dio vede. Dio ricondurrà tutto a sé. Come recita la profezia di Baruc, nella prima Lettura: “Dio ha stabilito di spianare ogni alta montagna e le rupi secolari, di colmare le valli e spianare la terra perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio”. Perché Dio si è ricordato di me.

And don't you
don't you forget about me
forget about me
And don't you
don't you forget about me…

sabato 1 dicembre 2012

Segnalazioni Stonate 2012 | Prima Domenica di Avvento


    Sul treno, nel tempo sospeso del viaggio, ci perdevamo in discussioni di cui, forse, non avremmo parlato altrove. “Questi tempi sono strani e cupi – dicevo io col tono grave di chi crede di aver capito qualcosa – che ci aspetta?”. L’amico inteccava nella risposta, tradendo l’emozione di un concetto profondo: “Ormai mi aspetto solo l’Apocalisse”.
Beate adolescenza! In quello strano tempo della giovinezza si moltiplicano i segni del cambiamento: ci sono paura, speranza, desiderio di novità, si intreccia tutto e il suo contrario. E tutto potrebbe accadere. Anche l’Apocalisse. Col tempo abbiamo dimenticato il nostro sentenziare per tuffarci distratti nel tempo meno sospeso dei giorni. Ma “il giorno è arrivato quando non ci facevamo più caso”. Una piccola apocalisse ci ha sorpreso comunque. Qualcuno si è fatto prendere dalle paure e dall’angoscia, qualcuno si è perso, qualcuno ha trovato la sua strada, qualcuno è rimasto, qualcuno si è ritrovato. Ne parla il Vangelo di questa prima domenica di Avvento. Non servono epidemie o strategie del terrore a sconvolgere le nostre esistenze, la  paura e l’ansia verdeggiano dove il tempo è vuoto e l’attesa indefinita. Subiamo entrambi senza capire, così i segni passano e non li sappiamo interpretare.

   Ai tempi di quel viaggio dilagava il post-rock, etichetta che per qualcuno, a dire il vero, era già da archiviare. Ma è noto che i cultori delle definizioni e delle tassonomie dilagano soprattutto in ambito musicale. Un guru della critica musicale attuale assicura che: "una band viaggia dal rock al post-rock generalmente passando da una fase vocale ad una creazione di trame e paesaggi sonori che si confondono con il resto della strumentazione". Al tecnicismo di nicchia, però, andrà affiancato, nel sentire di molte band, tutto il pathos di disillusione e la protesta di una generazione che varcato il Duemila non ha saputo che farsene del nuovo Millennio. Anche perché il continuo “post-qualcosa”  (età post-atomica, post-comunista, post-moderna, etc..) rinnova il corto circuito della delusione. 

In questa larga manica di post-rockettari un po’ intellettualoidi è fiorito oltreoceano un drappello di band affini come i più noti  Godspeed You Black Emperor! e la loro costola, sempre più autonoma, dei Silver Mt. Zion. Dal loro ultimo EP "The West Will Rise Again" (2012), difatti traggo ispirazione per un singolare parallelo con il Vangelo di Luca.
L’ascolto della loro discografia non rasserena. Le melodie, perfette colonne sonore di un tempo di crisi, si dibattono spesso tra la luce e il buio. E alla fine rimane molto buio. La tensione che brucia nei loro testi, però, si carica spesso di toni biblici o si leva in un grido come una preghiera. Così difatti, si ascolta in una brano (diviso in due parti) dall’emblematico titolo “What We Love Was Not Enough”:

E il giorno è arrivato quando non ci facevamo più caso
E il giorno è arrivato quando non ci facevamo più caso

Ci sarà la guerra nelle nostre città
Ci saranno rivolte al centro commerciale
Ci sarà del sangue alle nostre porte
E terrore nelle sale da ballo

Tutte le nostre città bruceranno
Tutti i nostri ponti si sfracelleranno
Tutti i nostri spiccioli andranno a marcire
Ci sarà fango sulle nostre tracce
..
Poi l’occidente risorgerà
Poi l’occidente risorgerà
Poi l’occidente risorgerà

Quanto abbiamo amato non era abbastanza
Quanto abbiamo amato non era abbastanza
Quanto abbiamo amato non era abbastanza

   San Luca mi perdonerà se lo accompagno a queste parole ma, come vuole la tradizione, un po’ artista era anche lui e, in fondo, è la Scrittura stessa a ispirare da millenni poeti e cantanti.

«Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.

Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
 Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
(..) Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell'uomo».

http://www.youtube.com/watch?v=xZoLDIal7vk
 
Ogni nostro momento può trasformarsi nell’attimo che indica l’apocalisse. A me capita: non capisco, subisco il tempo e i suoi segni, mi abbatto, forse mi arrabbio, ma con gli occhiali della preghiera perseverante tutto si mette a fuoco e i segni dei tempi si rivelano segni di Dio. Un incontro, una lettura, un imprevisto, la luce del sole, il rumore del vento. La trama del mondo lascia affiorare un piano diverso che appartiene a Dio. Scavalcata l’adolescenza si prospettano ulteriori apocalissi piccole e grandi, ma se le spalle non si fanno più robuste, la vista si allena e la speranza cristiana tiene alta la testa. Anche “l’occidente risorgerà”, ma a quali condizioni?

   Ricordo che al tempo di quel viaggio in treno – poco prima? Poco dopo?-, alla Giornata Mondiale della Gioventù di Toronto (2002) Giovanni Paolo II  invitava ad essere luce del mondo con quel guizzo poetico a lui congeniale: “anche una fiamma leggera che s'inarca solleva il pesante coperchio della notte”. Una piccola luce, come quella della preghiera, o come quella della nostra prima candela d’Avvento. 

sabato 13 ottobre 2012

50 anni dopo. Una fiaccolata in Piazza San Pietro con papa Benedetto.


Si chiama Joseph, ma non fa il papa. Anzi, si direbbe che un po’ ce l’abbia pure con lui. Siamo all’indomani del 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e dell’avvio dell’Anno della Fede. Da bravo seminarista attento alle circostanze del momento presente mi documento sulla storia del Concilio con un libretto comprato per l’occasione. Alla stregua di qualche poeta romantico affacciato su mari di nebbia e rovine gotiche in cerca di ispirazione mi sistemo bel bello in Piazza San Pietro col libro nuovo di pacca. In realtà attendo amici e dissimulo pose situazioniste rincantucciandomi tra le colonne del porticato del Bernini. Ma c’è spazio per poche pagine perché nel frattempo arriva Joseph. Ha l’aspetto di un reduce, uno di quei soldati vestiti di grigio topo dell’esercito di Cecco Beppe. E’ austriaco ma ha sulle spalle il peso di qualche trauma, di una disgrazia capitata in Italia. Vive per strada, ma veste distinto – nonostante i calzoni corti- e con grande dignità. “Questi preti non hanno umanität : basta guardarli”. Ce ne sono più o meno per tutti. Visto il tipo, però, c’è poco da rispondere. “C’erano due uccellini caduti dal nido. Sono passate suore, preti: nessuno si è fermato! Non hanno visto che avevano bisogno di cura? Ho perso due ore per trovare il posto più vicino per farli curare. Poi loro allevano e quando sanno volare lasciano liberi. Questi preti parlano molto dolce, ma non hanno zenzo della realtà”. Con tutta la buona volontà mi accingo a perorare la causa della santa chiesa cattolica. E’ una battaglia persa e la storia di quei due uccellini mi ronza nella testa.


Si chiama Joseph e fa il papa. Il giorno precedente, la sera dell’11 ottobre, si è affacciato sulla piazza colma di gente, per lo più giovani con le candele accese in ricordo della fiaccolata che cinquant’anni fa accompagnò l’apertura del Concilio e ascoltò il celebre ‘discorso alla luna’ di Giovanni XXIII, quello che tutti ricordano per la ‘carezza ai bambini’. Anche il Papa ha sulle spalle il peso di qualche trauma, porta con sé “le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi” per usare il celebre attacco della Gaudium et Spes. Dalla camera dei ricordi è Joseph che parla, a braccio e un po’ commosso : “Cinquant’anni fa, in questo giorno, anche io sono stato qui in Piazza .. Eravamo felici .. e pieni di entusiasmo. Il grande Concilio Ecumenico era inaugurato; eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa”. Dalla camera vaticana è il papa che parla: “In questi cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania .. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: «il Signore dorme e ci ha dimenticato»”. Parole che gelano la piazza canterina e ammansita dal ricordo del Papa buono. “Il fuoco dello Spirito Santo – prosegue il Papa - il fuoco di Cristo non è un fuoco divoratore, distruttivo; è un fuoco silenzioso, è una piccola fiamma di bontà, di bontà e di verità, che trasforma, dà luce e calore. Abbiamo visto che il Signore non ci dimentica... Cristo vive, è con noi anche oggi, e possiamo essere felici anche oggi perché la sua bontà non si spegne; è forte anche oggi!”.

Possibile che dopo cinquant’anni, dopo il grande sforzo di aggiornamento attuato dal Concilio, dopo la poderosa riflessione sulla Chiesa elaborata in quegli anni lo stesso Papa descriva con parole così drammatiche la Chiesa e le sue vicissitudini? Forse anche di questo c’era bisogno. Per quanti progressi si possano maturare nell’aggiornare strumenti e strutture con essi non intacchiamo l’essenziale. Per quanto numerosi possano essere i giovani che affollano le piazze (che bisogno c’è poi di contarsi sempre?) o i cattolici che si rendono vivaci e presenti in parrocchia o nella rete, non è con i numeri, né con post, né con tag o cinguettii che si misura l’opera dello Spirito. 

Certamente la storia passa per i grandi della gerarchia ed i buoni e influenti teologi, ma gli ingranaggi decisivi si scoprono nei luoghi più impensati, spesso nel grigio e nelle tenebre in cui operano i santi e vivono i più piccoli tra i piccoli. Così, infatti, dove non sarebbe arrivato il Concilio Vaticano I e oltre, è arrivata una povera illetterata dei Pirenei. Poi da Lourdes, passando anche per Lisieux (solo per fare un esempio noto a tutti) il testimone è passato a tre pastorelli di Fatima a cui sono stati consegnati i misteri più gravi del secolo. La grande storia si piega alla preghiera, cede il fianco a ciò che è nascosto ed umile per confondere i potenti ed i sapienti di questo mondo. Così è stato anche nei momenti più bui del secolo come insegnano Edith Stein, Padre Kolbe e François Xavier Van Thuan. Nei piccoli, infatti, Cristo può parlare e rivelarsi con maggiore forza e splendore. Altrimenti occorre spezzarsi, frantumare le proprie sovrastrutture sul legno della croce per tornare come loro e abbandonarsi completamente a Dio. “In un punto decisivo della via cristiana la natura deve andare con Cristo alla morte. La sua crescita rettilinea deve rompersi, la sua visione deve trasformarsi in notte, la sua accurata compiacenza di sé in maltrattamento”. E un passaggio nodale che è garanzia di maturità, che permette di operare quel cambiamento di mentalità per cui non agiamo e pensiamo più come se Dio “fosse alle nostre spalle” e toccasse a noi programmare la via migliore e più feconda, ma “camminiamo in attesa aperta, verso di Lui”. Così diceva Hans Urs Von Balthasar, il grande teologo in Chi è il Cristiano?: un testo acuto e dirompente composto nel 1965, all’indomani della conclusione del Concilio. “Possiamo avvicinarci a Dio solo se, al di la di tutti i nostri propri problemi, rimane in noi lo spazio libero per ciò che la sua volontà ha di inatteso”. E’ una disposizione che passa per una vera e propria ‘espropriazione’. Per la chiesa tale espropriazione, che pure si avvia nelle aperture al mondo segnate dal Concilio, si trasforma in umiliazione. Un’umiliazione che chiede il perdono, così come lo ha ripetutamente formulato Giovanni Paolo II nel suo pontificato e soprattutto in occasione del Giubileo del 2000, ma è un’umiliazione, prosegue il teologo “da cui viene spontaneo il termine vergogna, e non ci si deve sforzare di liberarsene”. E difatti, anche volendo, non è per niente facile liberarsene. Anzi, dalla radice cattiva spuntano sempre nuovi polloni.

Quando nel 2010 volava verso Fatima Benedetto XVI sembrava parlare proprio di questo ai giornalisti che lo incalzavano sul terzo mistero: “anche qui, oltre questa grande visione della sofferenza del Papa, che possiamo in prima istanza riferire a Papa Giovanni Paolo II, sono indicate realtà del futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano ... Il Signore ci ha detto che la Chiesa sarebbe stata sempre sofferente, in modi diversi, fino alla fine del mondo ... la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa ... Con una parola, dobbiamo ri-imparare proprio questo essenziale: la conversione, la preghiera, la penitenza e le virtù teologali. Così rispondiamo, siamo realisti nell’attenderci che sempre il male attacca, attacca dall’interno e dall’esterno, ma che sempre anche le forze del bene sono presenti e che, alla fine, il Signore è più forte del male, e la Madonna per noi è la garanzia visibile, materna della bontà di Dio, che è sempre l’ultima parola nella storia”. E’ una visione della storia e della chiesa che non si recupera sui libri, né si descrive con i numeri o le categorie degli analisti moderni: “la preghiera, la sofferenza, l’obbedienza di fede, la disponibilità (forse non sfruttata), l’umiltà, sfuggono ad ogni statistica”. E’ facile nei bar, come nelle sagrestie ( e perfino nei seminari e/o collegi) smarcarsi dalla vergogna e dall’espropriazione parlando di trame di palazzo, di berrette e partiti interni: “non è possibile – ammonisce ancora il vecchio Balthasar – che il cristiano voglia esigere e stare a guardare come la Chiesa viene espropriata e umiliata, senza veder compiersi questo salutare processo nella sua esistenza”.

50 anni dopo il concilio il Papa invita a tornare sui testi, gli autentici interpreti dei segni dei tempi. Con essi e con la fatica penata per elaborarli, il Concilio si “è preoccupato di far sì che la medesima fede continui ad essere vissuta nell’oggi, continui ad essere una fede viva in un mondo in cambiamento”. Le oscurità e le fatiche non verranno mai meno e sono il banco di prova dei nostri entusiasmi apostolici. Anche i santi più ardenti e coraggiosi ci si sono scontrati. San Giovanni Battista proclamava con parole di fuoco che il Messia era vicino: “Già la scure è posta alla radice degli alberi”! Ma poi, in attesa del supplizio, mandò dalla sua cella i discepoli a chiedere conferma. San Francesco Saverio, il grande evangelizzatore dell’Oriente, si diceva pronto a dare la vita per Cristo e la Chiesa così come dice il Vangelo: “chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà”. Però, come scrive in una lettera “quantunque il latino e il significato in genere di queste parole del Signore sia facile da intendere”, quando la situazione precipita davvero “tutto si fa così buio che il latino, pur essendo tanto chiaro, comincia ad offuscarsi, e in tal caso mi sembra che lo possa intendere solo colui al quale, per dotto che sia, Dio Nostro Signore lo vuole palesare in momenti particolari e per la Sua infinita misericordia”. Non a tutti il Signore chiede prove così esigenti, ma a tutti chiede il salto della fede. E’ un salto difficile, ma che apre alla speranza e alla gioia, perché, dice il Papa, “la fede vissuta apre il cuore alla Grazia di Dio che libera dal pessimismo”. “Cristiano – chiosa, invece von Balthasar – è l’uomo che vive di fede, che cioè ha regolato tutta la sua esistenza sull’unica possibilità apertagli da Gesù Cristo, il figlio di Dio, obbediente per noi tutti fino alla croce: quella di partecipare al sì obbediente, che redime il mondo, detto da Dio”. E se attorno alla Chiesa gravita il male, proprio la  feconda riflessione del Concilio ci ha dischiuso una prospettiva ricchissima sulla chiesa come mistero, comunione fra gli uomini e fra il cielo e la terra, chiesa come popolo chiamato universalmente alla santità, orientato, nella storia, sulla via della salvezza.

Sui marciapiedi della cronaca, invece, più precisamente quelli intorno a San Pietro, incrocio una signora devota. Lei, vedova con molti figli, torna dalla preghiera in chiesa. “Eh..sono vecchia, sa? ottantun’anni!”. E’ l’esordio tipico di chi vuole attaccare bottone e infatti la signora sorride prosegue e racconta: “Io abito qua vicino..ma sa che dalla terrazza vedevo papa Giovanni Paolo?”. Provo a dribblarla, ma lei insiste e mi dice di averlo sempre visto pregare, lui solo che camminava con il breviario in mano su una terrazza. Un papa, dunque, dei giorni feriali e dei momenti qualunque che diventa maestro di preghiera. Sono curiose le vie dello Spirito, ma passano quasi sempre per la carne e le parole degli uomini. Il cristiano che tiene Cristo davanti a sé non può fare a meno di correre incontro e insieme al fratello. “Tuttavia – e per l’ultima volta cito lo scritto di von Balthasar- dentro il fratello che incontra egli scorge il Figlio dell’uomo che per lui è morto e per lui interpone l’intercessione presso il Padre. Egli lo scorge dietro ognuno, dietro il mondo intero. Di ciò si nutra la sua speranza. .. la speranza dei cristiani non corre via dalla storia, ma lungo la storia corre verso la fine”.

Gli occhi di Joseph – quello che non fa il papa - pur nella maestosità della piazza berniniana, hanno saputo scorgere due uccellini caduti dal nido. Con il suo accento tedesco prosegue la sua requisitoria ora guardando dritto davanti a sé, come per concentrarsi o rammaricarsi di come stanno le cose, poi, di tanto in tanto, volgendo lo sguardo indietro ad una borsa che tiene accanto ai suoi piedi. “Chissà cosa ci tiene? Magari i pochi spiccioli o qualche vestito..”. Ma poi, quando si alza per salutarmi scorgo che nella borsa è avvolto un cucciolo: un cagnolino nero mezzo addormentato. Joseph lo accarezza con una tenerezza infinita che stride con gli accenti polemici di qualche minuto primo. “Si chiama Stella. E’ molto, molto tenera”. La tenerezza è un linguaggio universale, anche gli uomini più duri e arrabbiati finiscono per cedere di fronte ad un gesto di tenerezza. Anche gli animali sono sensibili alla tenerezza e perfino le bestie più temibili cedono di fronte alle coccole. Forse è per questo che quelle parole di cinquant’anni fa sono rimaste nella storia e nei cuori di tutti: “portate una carezza ai vostri bambini..”. Da chi custodisce la tenerezza ed ha occhi per le cose minime si può molto sperare.


Il mio libro sulla storia del concilio ha perso un po’ di interesse. Confesso che volevo saperne di più su contrasti tra tradizionalisti e progressisti, conoscerne i nomi, le svolte e le battute di arresto. C’è molto da leggere su questo. Ma che almeno tutto sia propedeutico a leggere il mondo e gli uomini. E per questo ci vuole la vista fine che allenano soprattutto la preghiera e l’amore. Così, nell’intreccio tra luce e tenebre proprio della storia i piccoli hanno un ruolo privilegiato. A loro, in modo particolare, papa Giovanni affidò la preghiera per il concilio: ai bambini “la cui innocenza e le cui preghiere a nessuno sfugge quanto valgano presso Dio, sia gli ammalati e i sofferenti, persuasi che i loro dolori e la loro vita, assai simile ad una immolazione, in virtù della Croce di Cristo si tramutano in una valida supplica, in salvezza, in fonte di vita più santa per la Chiesa intera”. Messe da parte le ri-letture, nuove attraenti letture ci aspettano.

Il Joseph papa, affacciato dalla finestra, si sarà pure sentito in obbligo di citare il beato predecessore. Ma in effetti, non poteva che concludere così: «Andate a casa, date un bacio ai bambini e dite che è del Papa».

giovedì 16 agosto 2012

Pellegrini dell'incompiuto

Pellegrinaggio diocesano: una pacchia per il seminarista! C’è dentro un po’ tutto: preghiera, servizi & animazione liturgica, cultura, chiacchiere, convivialità. E poi, se i pellegrini sono âgées, fioccano apprezzamenti, sorrisi, commozione, richieste di preghiera..insomma, un toccasana per l’autostima e la categoria. Ci scappa sempre qualche: “..siete anche de’ be’ ragazzi..”, “..ti s’aspetta in parrocchia!”, “quando canti messa vengo anch’io..”. Insomma, non manca proprio nulla. C’è il rischio, però, che il pellegrinaggio funzioni davvero, specialmente se si toccano luoghi speciali, come quelli attraversati dal recente Pellegrinaggio diocesano. Insieme ad un centinaio di pellegrini pistoiesi (e non) abbiamo infatti attraversato Israele, Giordania ed Egitto, fino al monte Sinai, sostando nei luoghi nevralgici dell’antico e del nuovo testamento. Ci ha guidato il Vescovo Mansueto Bianchi e tre sacerdoti che ricordiamo per dovere di cronaca, ma soprattutto per ringraziarli: don Piergiorgio Baronti, don Piero Vannelli e don Tommaso Chalupczak.

Nazareth, musulmani in preghiera nei pressi della Basilica della Natività
Viaggiare da seminaristi, come illustrato, non manca di pregi, ma dietro tanto entusiasmo si manifesta in realtà una grande aspettativa. Viene spontaneo domandarsi “Cosa si aspetterà la gente (e/o il vescovo) da uno come me?”. Ma occorre, si scopre, essere più precisi: “Che cosa vuole il Signore da me?”. 
A Nazareth e sul Lago di Tiberiade c’è l’esperienza di Gesù nel nascondimento del suo paese, nella predicazione e nei segni lungo il lago. E’ un luogo ideale per porsi seri interrogativi vocazionali. Oggi però, non è facile trovare a Nazareth le concentrazione favorevole, né recuperare il fascino romantico e il mito un po’ piccolo borghese della famiglia artigiana che dalle stampe ottocentesche si è propagato fino all’iconografia popolare. Di notte, lungo la via principale, il traffico è caotico: sono per lo più giovani, svagati e divertiti tra musica, facebook e localini come i coetanei delle nostre città. Ma c’è anche la preghiera islamica in un’assemblea affollata a due passi dalla Basilica dell’Annunciazione. E’ l’ambiguità su cui si gioca il futuro di molti paesi in bilico tra il “secolo” e il fondamentalismo. Si fatica ad immaginare in questo luogo la famiglia di Nazareth: oggi, inoltre, le città del mondo si assomigliano sempre di più. Ma duemila anni fa, in fin dei conti, anche i nazaretani fecero fatica a riconoscere il Messia. Qui lo stesso Gesù si aspettava il rifiuto. A Nazareth Dio si è fatto davvero piccolo e nascosto, verbo minimo più che abbreviato, almeno nei trent’anni che precedono la vita pubblica. 
Quando arrivò qui Charles de Foucauld il villaggio di Galilea poteva ancora assomigliare ad un presepe di cartapesta, ma la novità suscitata dallo Spirito trasformò l’ex-militare scavezzacollo in un maestro di spiritualità: “Per ciò che riguarda il raccoglimento, è l’amore che deve mantenerti in comunione con me e non l’allontanamento dai miei figli: vedimi in loro; e come io ho fatto a Nazareth, vivi tra di loro, assorto in Dio”.

Tabga, Chiesa del Primato, una delle "Pietre dei Cristiani".
Vivere tra di loro..”. Non  è mica semplice. Eppure la gente comune ha bisogno di conoscere Dio, di saperlo e sentirlo vicino. Fioccano le domande per i seminaristi, soprattutto quelle semplici e quasi toccanti nel loro candore sulla vita di Gesù. Non basterebbe questo per giustificare un pellegrinaggio in Terra Santa? Non è forse un’occasione preziosa per entrare nelle esigenze concrete della gente? Ma noi crediamo spesso di sapere tutto, o almeno quanto basta per stare tranquilli in un mondo autoreferenziale ed ovattato. E in effetti, nonostante le dritte di Charles de Foucauld, anche la Terra Santa immaginaria scivola tra le fascinazioni archeo-politiche e l’oleografia del presepe della nonna. La nostra fede scivola spesso in questa geografia immaginaria e a-problematica. Sul monte delle Beatitudini, invece, Gesù rovescia le prospettive del mondo e i suoi accomodamenti. Con le Beatitudini, ci ha ricordato lì il vescovo, Gesù scombina persino il modello legalistico del decalogo, ma lo assume, per darne compimento nell’ottica della fragilità umana. In quel discorso non è centrale l’osservanza spinta all’eroismo, ma la fragilità raggiunta dall’amore di Dio.
Giordania, Petra, il "Tempio del Tesoro" (foto di Gianni)
Il nostro pellegrinaggio dirotta dalla Terra Santa per puntare nella vicina Giordania: prima presso i resti e le rovine dell’estesa città di Gerasa -all’epoca di Gesù florida per i commerci, oggi per il turismo internazionale- poi a sud, nel roccioso deserto giordano, dove è nascosta la città di Petra. 
Qui il tempo resta l’architetto principale. Il calice dell’immortalità evocato dalle avventure di Indiana Jones non ha toccato la città degli uomini, che dopo i fasti antichi si è consumata nella sabbia, mentre quella dei morti, affollata di vuote tombe monumentali, combatte con il tempo sulla lunga distanza. L’ansia di immortalità non ha preservato questi luoghi dalla rovina e dell’incompiutezza che ne assicura il fascino ed è cifra dell’umano. A metà strada, in Giordania, il Monte Nebo ce ne ha parlato attraverso le parole del vescovo Bianchi.


Giordania, Petra, il canyon del Siq

«Questo è il paese per il quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: Io lo darò alla tua discendenza. Te l'ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!». Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l'ordine del Signore.

Giordania, Panorama dal monte Nebo
Il brano del Deuteronomio – ha commentato il vescovo - ci sgomenta, ma ci riconduce alla caratteristica propria dell’uomo. Solo Dio può colmare la misura, soltanto in Lui l’incompiutezza non trascolora in disperazione, ma si apre alla visione che consegna la speranza. L’incompiutezza non restringe l’orizzonte, bensì lo spalanca oltre la nostra misura. Anche il Seminario sembrerebbe restringerlo. Si entra pieni di entusiasmo e progetti..poi il “deserto” riporta con  i piedi per terra, alle esigenze primarie, spirituali e non. Durante la messa sul monte anche i buoni propositi di chierichetti modello svaniscono in un baleno. Sembravamo ferrati in tutto: ampolline, canti e campanelli..ma l’essenziale era altrove! Siamo davvero incompiuti, ma prenderne consapevolezza è già caparra di salvezza. Forse è per questo che dalla cima del Nebo il panorama è così emozionante, anche se la personale terra promessa non coincide con quella che si stende davanti fino a perdersi nella foschia.

In Giordania i pellegrini si dividono: un gruppo torna in Israele, attraverso il deserto, la Samaria, fino a Gerusalemme, un gruppo più folto si spinge fino ad Aqaba, in quella striscia di terra affacciata sul mar Rosso e oggi spartita tra Arabia Saudita, Giordania, Israele ed Egitto. Le sollecitazioni vacanziere del mar Rosso stordiscono anche i seminaristi che pure tentano a più riprese di coinvolgere i pellegrini e imparare qualcosa. Ancora una volta, però, si scoprono più poveri: manca, infatti, il messale per la messa domenicale, difettano pure pane e vino. Le risorse digitali sono insufficienti e incombono i controlli di frontiera.
Egitto, Sinai, il deserto delle Gazzelle
E’ il momento del viaggio attraverso il deserto del Sinai, fino al monastero di Santa Caterina. Dopo una rapida visita al monastero si celebra la messa adeguando per quanto possibile un salone impolverato dell’albergo. E’ una messa minimale, ma forse la più bella del viaggio. Se l’i-pad resta problematico ai liturgisti del terzo millennio i seminaristi si accontentano di un messale-quadernetto a righe, con orazioni scritte a lapis. 
Dalla cucina ci arriva il pane arabo, un pane azzimo che assomiglia – almeno così ce lo immaginiamo – a quello spezzato nell’ultima cena. Al crepuscolo, nella valle tra le rocce del Sinai, il miracolo si rinnova ed il pane arabo si trasforma in pane di vita. E’ pane che sazia la fame che mai abbandona l’uomo, neppure quello satollo di beni o di desideri mondani. 
Il vescovo ci parla di questa fame, un fame di Dio radicata in ogni cuore umano. Il deserto propone con forza questa esigenza primaria. Chi lo attraversa misura la potenza vivificante dell’acqua che suscita erba, alberi e frutti tra le rocce e la sabbia. Ma si comprendono meglio anche le parole dei salmi che cantano la fame e la sete e la forza delle esperienze vitali come l’attesa dell’alba, il calore del mezzogiorno, la custodia dell’ombra. Il deserto riporta all’essenziale e fa rivolgere lo sguardo al cielo: sete, fatica, stupore, desiderio, fragilità, ma anche la capacità di vedere lo sconfinato, proiettarsi su unità di misura millenarie, meditare ogni cosa e l’infinito..sono le esperienze originarie che allontanano dal ripiegamento su sé stessi e conducono sulla soglia della preghiera.
Qui si misura il senso della vocazione e il valore delle scelte fondamentali. La questione cruciale -il “caso serio”- può essere svilito e conoscere distrazioni e cadute. Ma è capitato anche a Mosè, che appena sceso dal Sinai ha mandato tutto a pezzi e ha dovuto nuovamente risalire.
Egitto, Notte sul Sinai

Egitto, Alba sulla cima del Sinai (foto di Gianni)
La salita al santo Monte occupa tutta la notte. Il percorso è lungo e faticoso, specialmente l’ultimo e scosceso tratto. Su per il sentiero rischiarato dalla luce lunare però, si ha l’impressione di accompagnare i magi con il loro corteo di tesori e cammelli e, con gli occhi puntati al limpido cielo stellato, si impara che cosa significa essere guidati da una stella. Poi, per fortuna, attorno ai 2000 metri, ci sono anche le soste alle tende beduine dove ciò che è utopia al mercato di Pistoia, come scambiare 50 euro in spiccioli, si rivela possibile. L’ultimo tratto, carichi di monetine e un po’ infreddoliti, è appena rischiarato dalle luci dell’alba. Sulla cima si comincia ad avvertire la fatica (ma forse non la avvertono don Piero Vannelli e alcune eroiche pellegrine ottuagenarie) e a misurare la maestà di Dio che all’alba si rivela davvero sulla cima del monte, quando si accendono di luce le rocce e il cielo si imbianca. C’è un mondo davanti, che si estende a perdita d’occhio e su cui si lanciano i primi raggi di sole. Avverti subito il tepore sulla pelle e la forza della legge cosmica che uguaglia buoni e cattivi, ti interpella e ti supera.

Betlemme, ingresso alla Basilica della Natività
A Betlemme la minuscola porta della Basilica suggerisce che occorre farsi piccoli per entrare nel Regno dei Cieli. A modo loro ci provano anche i seminaristi, che  in stile Zecchino d’Oro animano di canti natalizi la liturgia. Però è bello. Qualcosa (forse Qualcuno) tocca il cuore in questi momenti di preghiera semplice e condivisa. E’ la festa della Trasfigurazione, ma durante l’omelia del vescovo si scopre che ne esistono almeno altre due. C’è la trasfigurazione di Dio nell’umiltà della Natività a Betlemme e quella nella Gloria decisiva della Resurrezione: sono gli altri due momenti in cui Dio si rivela e mostra in piena luce e trasparenza chi è davvero.

Il ritorno a Gerusalemme riunisce i pellegrini che si ritrovano tutti al Santo Sepolcro. I seminaristi si decidono per una visita lampo avanti la chiusura. Occorre una marcia olimpionica per le strade della città vecchia tra ragguagli nel percorso, sosia del Messia, drappelli di militi e ragazzini arabi. Una volta arrivati però, c’è tempo per una sosta tranquilla. La sera, infatti, quando non circolano i gruppi di turisti e di devoti anche il Santo Sepolcro diventa un luogo silenzioso e dimesso. Nel luogo più santo della cristianità non c’è lustro di marmi, né venditori di gadgets come nei nostri santuari, ma neppure il continuo occhieggiarsi dei diversi cristiani. L’oscurità porta il silenzio nella complessa e stratificata geometria della basilica. Si può ben pregare su quest’ora, nel sepolcro e sul Golgota, in ginocchio, uno accanto all’altro.

Gerusalemme, Basilica del Santo Sepolcro, Cappella del Golgota
Egeria, pellegrina spagnola che nel IV secolo redasse un celebre diario di viaggio, fervente di pii desideri, cercava in questi luoghi la conferma tangibile alle parole della Bibbia. Arrivato l’islam, dopo secoli di lontananza, quando i crociati ricostruirono questa Basilica, i luoghi santi acquistarono una forza di suggestione tutta terrena, in buona parte sincera, ma anche manipolabile. Poi la Terra Santa è stata esportata fin nella sua concretezza, di reliquie e architetture, nei regni d’Occidente. Con il tempo è stata tradotta in una geografia intima, che si dipanava -come ci ha insegnato San Francesco - nelle ore del giorno e nei luoghi della quotidianità. Sul Golgota la prossimità dei fratelli di seminario (e non solo), inginocchiati gomito a gomito, feconda un’esperienza che non resta emozionale. Non nelle pietre, ma nella carne, nei cuori e nella mente dei fratelli calpestiamo luoghi santi, in cui occorrerebbe, talvolta, slacciarsi i sandali come Mosè davanti al roveto. Prossimità che passa anche per le tensioni meschine tra i cristiani che si spartiscono la basilica e gli eccessi dei frati più maneschi. Anche queste sono ferite che Gesù ha portato con sé sulla croce e che indicano la faticosa ascesa della conversione. C’è però un fatto che ribalta ogni cosa, vince il peccato e azzera ogni dolore. La Resurrezione cambia tutto. Il risorto è la chiave di volta del nostro credere. La fede e l’amore sono le due gambe che ci fanno correre nella sequela, che rendono possibile la vita alla luce della gioia della Resurrezione. Parole che siglano l’omelia del vescovo nel Santo Sepolcro e che chiudono al rilancio il pellegrinaggio. 
La terra promessa, la terra santa di Gesù è ancora oggi terra contesa tra i popoli e i figli di Abramo, dove la storia e l’archeologia riaccendono divisioni e violenze. Ma questa terra rimanda con decisione alla terra degli uomini, agli spazi del cuore e dell’agire che non hanno confine. 


sabato 24 marzo 2012

5° domenica di Quaresima - PERDERE

Vogliamo vedere Gesù!
Sentirselo dire è il sogno di ogni testimone, evangelizzatore, seminarista.. un sogno che si può estendere ad ogni cristiano. Sulla scia dell’entusiasmo il seminarista novello, consumato dalla zelo apostolico potrebbe quasi smarrirsi: “Mitico! Ma dove lo porto?”. Non sempre abbiamo un’adorazione eucaristica, un prete pronto all’ascolto a portata di mano. Mettiamo che vada bene e abbia il prete in gaudiosa attesa. “Vogliamo vedere Gesù!”: “beh, per ora accontentati del prete..”
Se la prendiamo sul serio, quella domanda ci rimane fastidiosamente appiccicata. Gli apostoli si rincorrono l’un l’altro: “Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù”. E Gesù? Il Maestro sembra dribblare il quesito. Come capita spesso nel Vangelo le Sue risposte rimandano ad una comprensione ulteriore della domanda. La corsa entusiasta degli apostoli è bruscamente interrotta: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”.

Le parole di Gesù saranno cadute come macigni sull’animo dei discepoli. Capita anche ai seminaristi. Per me sono le parole più impegnative da ruminare e digerire in questi anni del seminario. Certo, ai seminaristi dopotutto non è chiesto il sacrificio, ma qualche piccola morte deve essere messa in conto. La tentazione dell’effetto tunnel è sempre in agguato, ma se una volta usciti con un colletto bianco tutto torna come prima siamo chicchi di grano inutili e rinsecchiti. Le nostre morti talvolta, sono infinitesimali, ma tutte merito Suo. Il seme che muore non deve ingegnarsi troppo nell’esercizio: una volta nel terreno fecondo tutto accade spontaneamente e anche la tensione che accompagna la piccola morte quotidiana si scioglie nella pace.

Se mi guardo allo specchio  risuona la parola dell’apostolo: “ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto” (1Cor, 12). Forse sono soltanto invecchiato, con qualche capello in meno e occhiali diversi. Come mi conosce il Signore? Che cosa ha intravisto di speciale in me? E ammesso che qualcosa di speciale ci sia davvero, che cosa devo fare per perdere la mia vita e.. ritrovarla?
Nell’imminenza della Passione può darsi che anche Gesù abbia avvertito il peso di questo interrogativo: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». 
La Gloria di Gesù passa per la croce, soltanto innalzato attirerà tutti a sé. La risposta che cercavano gli apostoli arriva per la via meno accattivante: “Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà.

Anche in chi segue Gesù è possibile “vedere Gesù”. Ma la via della visibilità è quella del chicco che muore. Stare in seminario come il chicco sotto terra può risultare un esercizio faticoso. Vorremmo vedere spuntare il germoglio, mettere presto foglie e spighe abbondanti. Sarebbe bello offrire subito parole edificanti, abbondare in sapienza e in opere sante. Ma è sufficiente seguire la croce: apriremo gli occhi, almeno, su quelle dei fratelli. La via dolorosa della croce personale non rimane isolata se si accompagna a quella di Cristo. Perché non è possibile spiegare questo mistero e correre dritti alla gloria? Se fosse possibile dispensare risposte giuste e confortare i fratelli sarebbe già molto. D'altronde i seminaristi vivono in un osservatorio privilegiato da cui è possibile scorgere le tante croci che accompagnano i compagni e i fratelli che incrociano per strada o in parrocchia.

James Tissot, Ciò che Gesù vide dalla Croce, 1886-1894, New York, Brooklyn Museum
Santa Brigida (1302-1373), patrona d’Europa (e chi lo sapeva?), mistica svedese vissuta a lungo a Roma e pellegrina fino in Terra Santa, mise per scritto un copioso volume di Rivelazioni. I suoi scritti urtano un po’ la nostra sensibilità (e la nostra devozione acqua e sapone) ma c’è un passaggio, piuttosto drammatico, tratto da una visione della Passione di Cristo, che può servire a chiudere il nostro discorso.
Poi il Figlio mio si rivestì e vidi allora le orme dei suoi piedi piene di sangue e conobbi da questi segni il percorso di mio Figlio. Dovunque andava, infatti, appariva la terra bagnata di sangue” (Libro I, cap. 10).

Brigida non si agiterà troppo se nelle impronte di Cristo riconosciamo il sangue versato da chi porta la croce nella sequela di Gesù: ammalati, orfani, poveri, disabili, feriti dalla vita.. Nel sangue che accompagna quelle orme si riconosce soprattutto il sangue versato dai martiri. La loro croce, già su questa terra, risplende della gloria dei santi e lascia vedere Gesù.

sabato 17 marzo 2012

Parole per la Quaresima | CREDERE

NICODEMO
Le  parole e i gesti nel tempio ti avevano impressionato. Eri un colto israelita, pio e autorevole e quella notte hai cercato Gesù. Nei suo segni avevi intuito l’opera di Dio, ma la tua comprensione rimaneva lontana, tutto era ancora opaco e la parola muta. Quella notte Gesù continuò a stupirti. Toccava corde profonde ma infittiva il mistero. Hai scoperto che anche le parole del “maestro buono” possono ferire. «Tu sei maestro d'Israele e non sai queste cose?». Quelle parole ti hanno fatto male? Ti sono rimaste inchiodate nella memoria. Sei arrossito, forse balbettavi, ma Lui è andato oltre. I sapienti non arrivano sempre primi.


«Tu sei maestro d'Israele e non sai queste cose?». Immagino che sarai tornato sui rotoli, a quel brano della Legge dove si parla dello strano serpente di bronzo che Mosè aveva applicato al bastone. Un serpente prodigioso che guariva dal veleno e salvava dalla morte. Cosa intendeva Gesù?
Spesso la Parola lascia interdetti. D’altronde è sufficiente la vita per lasciare aperti, e con sgomento, tanti interrogativi. Quella notte nel tuo cuore la curiosità (e lo stupore?) combatteva con la paura  della condanna e del disprezzo del sinedrio. Forse temevi perfino di smarrire la tua identità. Lui, comunque, l’aveva capito al volo e con il suo sguardo era andato anche oltre.

Caravaggio, Deposizione di Cristo, part., Pinacoteca Vaticana
Soltanto col tempo hai compreso le parole di quella notte. Sul Golgota, sotto la croce, hai scoperto Gesù innalzato. Ti sei accorto d’un tratto che anche il tuo cuore sanguinava con il suo. Dopo averlo visto morire come un brigante, inchiodato al palo, hai ricordato quelle parole. Ecco perché la ferita di quella notte si era improvvisamente riaperta. Non c’era da rincorrere la sapienza degli uomini, neppure da temere il giudizio degli altri, né credere di rimetterci comunque. Bastava amare. Ecco cosa ti chiedeva in quell’incontro. Allora eri rimasto ferito e forse anche un po’ deluso, ma Gesù ti aveva parlato d’amore. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.” Già allora c’era amore senza misura. Ma tu misuravi le parole.

Soltanto sotto la croce hai compreso che nell’amore si spiegava ogni cosa. Anche la legge e i profeti si aprivano ad una nuova comprensione. Ricordi come si chiudevano i libri sacri? C’era quel finale aperto che parlava dell’amore di Dio : «Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora..” Quel finale ti indicava la strada e apriva alla speranza, contro ogni speranza. “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».

Il Padre agisce per amore. Un amore così grande che soltanto il sacrificio del Figlio poteva rivelare. Cosa c’era da sperare in quel momento? Nessun timore di restare schiacciati dalla paura e dal timore della condanna. Ricordasti le sue parole? “Chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”. Non era il momento di precipitare di nuovo nelle tenebre. Sei tornato sul Golgota portando una mistura di mirra e d'aloe di circa cento libbre. Quel balsamo profumato, abbondante e prezioso, diceva tutto l’amore con cui ti sei finalmente aperto a Gesù. Credere nell’amore: ed era sufficiente.