venerdì 29 marzo 2013

Per crucem ad lucem

La nonna si inerpica per i cigli, avanzando lenta ma sicura tra l’erba alta e il terreno ancora molle per la pioggia. C’è da tagliare le canne e metterle da parte per le viti e le altre piante. La campagna è aperta sulla valle, sospesa nel tempo placido e inesorabile delle stagioni. Mi perdo a vagheggiare in osservazioni intellettualoidi, figlie estreme della stagione romantica e di una generazione casalinga, ma le canne vanno contate, distinte in piccoli carichi, aggiustate senza confusione. “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio... Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.." (Isaia 42,3)
Il linguaggio biblico riporta sempre con i piedi per terra e di fronte al canneto atterrato acquista tutta la sua forza. A che giova una canna spezzata? Non è buona per i filari della vigna, né per la zufolo pagano di Pan. Eppure la misericordia di Dio sorpassa ogni comprensione e così dice “il Signore Dio, che crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi nasce..” (Isaia 42,5).

Nella Bibbia i salmi presentano il creato come il luogo dell’alleanza, quella originaria tra Dio e le sue creature. E’ un legame che le stagioni, il corso del sole e le fasi della luna, il caldo ed il freddo confermano come irrevocabile. Il creato è il luogo da cui scaturisce la sapienza originaria, quella che i nonni, ultimi superstiti di una civiltà contadina, custodiscono ancora. La Chiesa ha accompagnato per secoli questa civiltà, ad essa, più o meno fin da Gregorio Magno, ha adeguato il suo linguaggio; ad essa, purtroppo, ha anche accomodato il suo operato. Poi è arrivata la civiltà moderna e non si è ancora sicuri che la Chiesa abbia trovato per questa – se mai la debba trovare - una forma adeguata. Il Concilio Vaticano II ha affrontato la questione di petto, ma forse attende ancora di essere pienamente digerito. Nei tempi lunghi dell’antropologia e delle civiltà i santi sono entrati nella carne viva dell’umano, negli estremi lembi dell’esistenza, dove la storia non muta o deforma. Da lì hanno guidato con la fantasia dello Spirito l’intrecciarsi inedito tra la fede e la novità dei tempi.

Non so se la natura sia ancora intesa come il luogo dell’alleanza originaria o se, piuttosto, sia specchio interiore di un sentimento che muta e cerca conferma di sé stesso, ormai risucchiata, nel peggiore dei casi, nelle astrazioni dello sfondo del desktop. Anche lo sguardo su Gesù non è sempre limpido. Lo abbiamo visto strapazzato, trascinato e confinato nella storia, poi triturato nelle filosofie, quindi smaterializzato in mille avatar. Ma di Gesù non si può fare a meno di parlare!

Dallo zufolo di pan e gli stornelli siamo trapassati alla scariche elettriche di chitarre distorte e alla decostruzione musicale. Negli anni ottanta, ad esempio, un manipolo di punk berlinesi, ha messo su disco i ritmi e i rumori molesti della città industriale. Trapani, martelli pneumatici, tubi di ferro, fastidi tecnologici e disagi psicologici di nuovi consorzi tribali. Dopo le intemperanze giovanili sono diventati intellettuali risucchiati nella sempre verde tentazione romantica, desta attraverso le avanguardie, le ideologie e perfino il nostro tempo. Qualche anno fa, nella nuova e più levigata formula musicale, hanno registrato anche questo brano.

Il testo è una meditazione sul mare dalla poetica sprezzante e disincantata. Compare, nel bel mezzo del testo, la figura di Gesù. Appare nel segno del miracolo accanto all’assoluto significato dal mare placido. Appare, infine, come cifra drammatica dell’umanità nell’ultimo grido sulla croce, accompagnato dalle voci della storia nel frangersi fragoroso delle onde. Un Gesù degli estremi. Ma è il Gesù che continua a interrogare l’uomo di ogni tempo.

La Chiesa, nelle sue minoranze creative, si rinnova in questi estremi: dove è più aspra la sete d’assoluto nei deserti e nelle ‘periferie’ del mondo, dove Dio, con l'uomo, si fa più povero, solo e fragile.

Anche gli Ex-punkettoni, in qualche modo parlano del crocifisso. Si può decostruire ogni credo e ogni chiesa, ma la croce è la cifra indelebile del Dio fatto uomo. Può risultare stabile soltanto l’instabilità, come quella delle onde, ma la croce è ben piantata nelle vicende degli uomini. Da qui passano tutte le novità dei santi. Da qui passano le nostre conversioni. Da qui si riversa l’infinita misericordia di Dio. Possiamo complicare, nel tempo, i percorsi che portano alla conoscenza originaria, indicano l’alleanza e ci fanno sperimentare Dio. Il miracolo che supera tutte le nostra costruzioni e decostruzioni però, è che Dio “non ha aspettato che andassimo da Lui, ma è Lui che si è mosso verso di noi, senza calcoli, senza misure. Dio è così: Lui fa sempre il primo passo, Lui si muove verso di noi” (Papa Francesco).

Le onde

E adesso cosa devo fare con voi onde, voi che non sapete mai decidervi se essere le prime o le ultime?
Volete definire la linea della costa con le vostre chiacchiere,
cesellarla con il vostro venire e il vostro ritirarvi.
Ma non sai mai quanto è veramente lunga la costa,
dove finisca la terraferma, dove la terraferma inizi, perché di continuo cambiate la linea, lunghezza, condizione, con la Luna e in modo incalcolabile.

Stabile è soltanto la vostra instabilità.
Vittoriose alla fine, perché consumate le pietre come spesso evocate, macinate la sabbia così fine come quella che serve alle clessidre ed ai contaminuti per la cottura delle uova, per misurare il tempo e dire la differenza tra l’uovo sodo e quello crudo.

Vittoriose anche perché mai stanche, vincete sempre voi se facciamo a gara su chi di noi, per primo, affonda nel sonno, o meglio tu: il Mare, perché non dormi mai.
Sebbene di per te stesso senza colore, appari blu quando sulla superficie il cielo si specchia tranquillo: la pista ideale per camminare senza meta per il Figlio del carpentiere. L’elemento più mutevole.
E al contrario quando tu sei agitato , rumoroso e fragoroso, tendo l’orecchio sulla cresta dell’onda e dalle montagne delle onde, dai cavalloni, prorompono poi mille voci: le mie, quelle di ieri, quelle che non conoscevo, quelle che di solito bisbigliano e anche tutte le altre, e proprio nel mezzo il Nazareno: di nuovo le famose, cinque, ultime parole:

“Perché mi hai abbandonato?”

Mi ci scontro,e grido ad ogni singola onda:
Resti qui ora?
Resti qui ora?
Resti qui ora, o cosa?


(grazie a Meicke per l'aiuto nella traduzione)

giovedì 14 marzo 2013

Habemus Papam!

Papa Benedetto gira su e giù nella giostra. Una giostra delle fiere di paese, con astronavi minuscole che ruotano senza entusiasmo tra mille lampadine. Ma lui non ne può proprio più. Si guarda intorno cercando aiuto e un modo rapido per scendere a terra. E difatti scende. Lo ritrovo sereno e dimesso in clergyman, che passeggia tra un giardino e una casa di campagna. “Ecco, guarda, te lo regalo. Con questo ti ci puoi fare un anellino”. Il vescovo emerito di Roma porge ad una ragazzina un cristallo di bigiotteria: “..l’ho trovato qui per terra a Castelgandolfo”. Sono contento di vederlo tranquillo, ma subito mi sparisce davanti. Nel frattempo, infatti, mi imbatto in uno strano snack di produzione pontificia. 
“Ecco, uno dei più grandi fallimenti del Vaticano!”
Alzo lo sguardo stupito per capire di cosa si tratta. Una suora, da dietro un bancone da bar mi fa cenno di riferirsi alla merendina che tengo tra le mani. “Hanno speso un sacco di soldi per quello”. 
“Per una merendina? Com’è possibile?”
“Scartala..” 
Mi fido della suora e apro la confezione. Dentro è ripiegata, come il bugiardino di una medicina, una grande pagina fitta di parole. Il testo è complesso, articolato in più paragrafi e sottoparagrafi, irto di note e rimandi. “Sono stati anni a prepararlo e poi nessuno l’ha mai letto..si può immaginare. Come può mettersi a leggere una cosa simile chi vuole solo mangiarsi una merendina?”


“Come darle torto..”
Ma intanto mi sgrano lo snack, che si rivela una saporita crostatina farcita alla crema. Mi sveglio appena in tempo per le lodi: è il primo giorno di conclave. “I sogni rasentano la realtà” mi disse una volta Don Renato : tutti lo sanno, ma a me piace quel verbo che esprime il lambire le cose e, allo stesso, tempo, il raschiare abrasivo sulla realtà. 

Mercoledì pomeriggio sono tutti sintonizzati su Radio Vaticana o in attesa, palese o dissimulata, sul portatile o il telefonino. Alle 18 però, è per me l’ora di prendere l’autobus per dirigersi in parrocchia: dalle 19 alle 20 c’è il catechismo della Cresima. Piove e c’è traffico: non può succedere proprio stasera! E difatti, appena scesi in classe con i cresimandi squilla un telefono: “Fumata bianca!”

Il parroco attacca subito con le campane. “Hanno fatto il papa! Hanno fatto il papa! Chi è? Si sa già?” Momenti di panico in cerca di connessioni disponibili. E i ragazzi? Dopo un rapido briefing si opta per il “libera tutti”. Tutti rispediti a casa per seguire l’evento storico. Nell’era digitale si rimpiange il vecchio televisore da salone parrocchiale. Dominerà anche la condivisione globale dei social network, ma dov’è la trepida attesa, quella gomito a gomito che forgia la comunità e cerca la conferma di vivere qualcosa di veramente importante?

Comunque non c’è troppo tempo per pensare. Giusto quello per uscire con malcelata tranquillità dalla parrocchia e non farsi veder correre all’inseguimento di un taxi gridando: “in Piazza San Pietro!” Ma la richiesta sembra la meno azzeccata in assoluto: “eh, mo’ c’è sta’rmonno!”

Si corre sul taxi verso la storia, come i taxi parigini alla battaglia della Marna..ma è l’ora di punta e piove senza pietà. Con un’abile manovra di aggiramento l’autista svicola dagli incolonnamenti e si precipita per vie insperate non lontano piazza Risorgimento. Proiettati fuori inizia una corsa insensata che monta, si fa rumorosa, cresce rapidamente in un’isteria collettiva. Corrono tutti verso San Pietro in mezzo alla strada, tra gli autisti smarriti e lungo i binari del tram. I militari fanno strada incanalando la folla: donne, bambini, comitive di pellegrini, suore e signorine, azzimati monsignori: tutti di corsa per vedere il papa. Ci surclassano i legionari di Cristo, con scriminature impeccabili e ombrello e cappotto composti nonostante la corsa. Per loro si sospettano allenamenti stile marines mentre noi battiamo la fiacca. Cirillo, il mio compagno cinese arranca disfatto quasi più di me. Ma mai abbandonare il compagno sul campo! Il colonnato è infatti vicino: ormai ci siamo. Sgattaiolando tra la folla ci spingiamo fino in mezzo alla piazza stracolma di gente, trepidante per l’attesa ormai lunga. Adesso si può riprendere fiato e realizzare che qualcosa di veramente importante sta per accadere. 
seminaristi in Piazza San Pietro..
Intorno alle 20, quando cessa la pioggia e ho appena terminato il rosario si accendono le luci della loggia. La piazza sobbalza e si illumina di colpo delle luci azzurrine di telefoni e i-pad pronti alla registrazione o allo scatto. Quando si apre la finestra il cardinale Tauran, il protodiacono di Santa Romana Chiesa proclama fiero e tentennante il rapido annuncio: 
Annuntio vobis gaudium magnum; habemus Papam: Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum, Dominum Georgium Marium Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Bergoglio qui sibi nomen imposuit Franciscum!

Sconcerto generale! La piazza si agita “..e chi è?”. “Bergoglio, un argentino!” Spacciamo subito le nostre minime informazioni. “argentino? Come Belen!” (sic!) “Franciscus?”

Il nome da Papa è una sorpresa quasi più grande. Sogno o son desto? Il Signore mi perdonerà, ma la prima impressione è stata quella di trovarsi nel bel mezzo di un film di Woody Allen, un po’ come in quel vecchissimo film intitolato “il Dormiglione”, dove tale Paolo VII scatena una guerra mondiale per essersi impossessato di una bomba atomica. Non sogno, ma son desto: dalla finestra centrale si stende il grande drappo rosso e di fianco si affacciano, agli altri balconi sulla facciata gli eminentissimi cardinali, contenti dell’affaccio privilegiato sulla piazza gremita. C’è una folla con lo sguardo levato che si prolunga per via della Conciliazione e attende un saluto, le parole che fanno intendere lo stile di un pontificato. E’ il momento: c’è un lungo silenzio. Il papa sta immobile, come inteccherito davanti alla piazza e non si sa chi sia più esitante ed emozionato. Osserva in silenzio, senza gesti di saluto o di richiesta. La folla lo scruta, indagandolo in silenzio sui maxischermi e sul balcone. 

Poi un saluto semplice, come quello di un dimesso presentatore televisivo..  "Fratelli e sorelle, buonasera!”.

Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo … ma siamo qui … Vi ringrazio dell’accoglienza. La comunità diocesana di Roma ha il suo Vescovo: grazie!” 

Le parole scorrono piano, interrotte, con voce piana e la folla è tutta tesa nell’ascolto. 
E prima di tutto, vorrei fare una preghiera per il nostro Vescovo emerito, Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca”.



Il papa chiede preghiere per il suo predecessore e fa pregare la piazza. Ci si trova un po’ smarriti a recitare il Padre Nostro. Nel raccoglimento la folla scandisce con sincera devozione le parole insegnate da Gesù. “Che stiamo facendo?” Suona strana quella preghiera e l’invito all’Ave Maria ed al Gloria. Strano, ma solo per un momento. Non è uno show di prima serata. Non siamo a Sanremo. Non ci siamo dati neppure appuntamento per timbrare il cartellino all’ora chiave della storia. Preghiamo ed è l’orizzonte di Dio che spunta oltre la piazza, la loggia delle benedizione e sopra il cupolone. Ma accanto alla preghiera per il predecessore arriva la richiesta – proposta inaudita!- di pregare, ancora in quel momento, sulla persona del papa che si china in raccoglimento a ricevere il sostegno spirituale della gente.

E adesso vorrei dare la Benedizione, ma prima – prima, vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me”.

Un momento che si vorrebbe prolungare ancora molto a lungo, ma è già il tempo della Benedizione e si avverte con sempre più distinta chiarezza che lo Spirito, ancora una volta, soffia la novità nella Chiesa e nella storia degli uomini.

Adesso darò la Benedizione a voi e a tutto il mondo, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà”.

Il papa indossa e smette la stola. E’ il momento di ritirarsi, ma avverte l’urgenza di salutare. Lo vediamo avanzare di nuovo verso il microfono che, con qualche impaccio, gli è portato davanti. “Fratelli e sorelle, vi lascio. Grazie tante dell’accoglienza. Pregate per me e a presto! Ci vediamo presto: doman..” Ci vediamo domani? Sembra per un attimo di non conoscere fino in fondo che cosa chiede l’agenda. Una sensazione che adesso sfiora il suo pontificato. “Domani voglio andare a pregare la Madonna, perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo!

Il saluto è cordiale e il richiamo alla Madonna è semplice, bello e pieno di fiducia filiale. Nel discorso, pur breve, mai un accenno al termine “papa” e un rimarcare continuo alla Chiesa di Roma. Umiltà, insistenza sulla dimensione della collegialità, low-profile e aplomb gesuitico?

Il papa ha lasciato il segno con parole semplici, ma evidentemente meditate. Emerge una proposta umile, ma chiara, più negli intenti, per il momento, che nelle possibili proposte. E’ uno stile che fa breccia, anche senza gestualità.

Rottura, rinnovamento? Segnali di cambiamento?
Nella Chiesa tutto si tiene: Dio è l’artista della sintesi. Il mondo può immaginare sfide geopolitiche, lotte intestine, scenari da risiko pontificio o strategie comunicative. Non si tratta di smerciare merendine o appetibili crostatine alla crema, né di cadere nella produzione di documenti onnicomprensivi. Si affiancheranno stili e linguaggi diversi, ma nella luce della fede e nell’opera dello Spirito tutto si ricompone e avanza verso il compimento. Chissà con quale occhi, davanti alla tivvù, avrà assistito l’emerito Benedetto da Castel Gandolfo. Non troverei commento migliore alle sorprese di questa sera e di questi giorni che le parole della sua ultima udienza: 
 “la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare”.