sabato 29 novembre 2014

Natale Inquieto - Prima Domenica di Avvento 2014


Perché alla gente piacciono le stelle?
Una ventina d’anni fa - nel finale di un disco imperdibile - se lo domandava anche un’inquieta cantautrice a stelle e strisce. Ma sarà poi così vero? Per le strade incrocio teste basse e dita che corrono frenetiche su piccole luci molto terrestri. La notte, accecata perfino nei piani più alti dalle luci e dalle distrazioni della vita urbana, segue un ritmo differente da quello del firmamento. 
Quando il cielo è nitido, alzando lo sguardo dai vicini dietro le finestre o dalle persiane socchiuse alle stelle abbassate sull’orizzonte, sono rimandato alla visione aperta, distesa, liberante, della volta celeste. Forse – mi dico – in qualche angolo della città, in più sperdute frazioni di questo paese…anzi, ancora più là, oltrepassati monti e deserti, ancora più là dell’Asia dove scorrazzava il pastore errante, altri occhi puntano il cielo senza saper cosa dire, spersi sotto le stelle, ma sollevati per un attimo dal ritmo del mondo quaggiù. Sotto la silenziosa maestà delle stelle, perlustrando la porzione di globo nelle tenebre, non troverei soltanto coppie di innamorati, ma pure disperati in mezzo al mare e inermi assediati da sanguinari mozzatori di teste, oppure vittime di sistemi corrotti e violenti. Assai più vicino, a poco meno di cinquanta metri, sono sicuro, d’altra parte, di trovare uomini e donne di cui conosco il nome con la schiena su uno scalino, rimbacuccati tra infiniti sacchetti a contendersi lo spazio con i topi.

Perché alla gente piacciono le stelle?
“Sono lontane, ma a guardarle si sta al sicuro”, recitava la canzone di cui sopra. Sotto le stelle si vive una certa inquietudine. Lassù c’è una realtà misteriosa e infinita che ci supera nello spazio e nel tempo. Quaggiù, invece, piccole cose finite che tanto fanno penare o gioire.

Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?” (Salmo 8,4-5) Il salmista non sfuggiva agli stessi interrogativi, perché da sempre gli uomini hanno desiderato tenere insieme il cielo e la terra. Anche per questo attorno alla notte è fiorita una sconfinata ed inquieta letteratura.

La notte domina il Vangelo di questa prima domenica d’Avvento ed è una notte inquieta. Il padrone se n’è andato senza lasciar detta l’ora del ritorno, ma affidando i compiti ai suoi servi. “Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati” (Mc 13,35-36).
Una lettura breve che suona quasi minacciosa e lascia nell’inquietudine di un ritorno promesso ma inaspettato.

Benvenuto Matteucci, prete pistoiese poi arcivescovo di Pisa, ma anche appassionato cultore di letteratura, ha scritto un bel saggio sull’inquietudine (Introduzione a F. Castelli, Letteratura dell’inquietudine, Milano 1964). Qui parlava di “una inquietudine originale nativa e ontologica … propria dell’uomo, di ogni uomo, anima immortale, circoscritta nei limiti corruttibili dello spazio e del tempo”.

Chi guarda il cielo avverte meglio questi "limiti corruttibili". Sotto le stelle, infatti, chi veglia può interrogare il Cielo con più facilità. Non sarà un caso se Gesù la notte saliva sul monte a pregare. Forse con le stelle davanti agli occhi era più semplice parlare con il Padre. 
Gli uomini hanno creduto di rintracciare nelle stelle i segreti della storia di questo e dell’altro mondo e attraverso di esse hanno pensato ai loro morti. Nella Via Lattea, ad esempio, trovavano nuova vita gli uomini virtuosi e da lassù, racconta Cicerone nel cosiddetto “Sogno di Scipione” : “tutto pareva magnifico e meraviglioso. C'erano, tra l'altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto ... I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo” (III, 16). Nel cielo, poi, i cristiani collocarono i santi, cercando di cucire definitivamente il finito e l’eterno. Ma di fronte al cielo anche il cristiano resta sulla soglia.

Meglio che altrove, però, il Signore sussurra attraverso le stelle. Gregorio Magno, ad esempio, parlava di celesti sussurri: “il divino sussurro giunge a noi attraverso tante vene quante sono le opere create che la divinità stessa presiede. Quando contempliamo l’opera creata ci eleviamo ad ammirare il creatore…poiché non possiamo avere di lui una conoscenza adeguata, non sentiamo la sua voce, ma appena un sussurro. E siccome non siamo in grado di conoscere a fondo neppure le stesse cose create, giustamente si dice: Quasi furtivamente il mio orecchio percepì le vene del sussurro” (Commento morale a Giobbe, parte prima, V, 52).

Il sussurro però non ci appaga e la distanza che separa il tempo e l'eterno, la mutevolezza e la Verità immutabile, talvolta trasforma l'inquietudine in angoscia: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” 
Il profeta Isaia (63,19), nella seconda lettura di questa Domenica, ci leva di bocca il grido che agita i nostri momenti difficili. 
Per Raymond Raposa, folk singer dell’Oregon attorno a cui ruota una band polimorfa chiamata Castanets, questa inquietudine è trasfigurata in un asciutto brano di poesia-canzone (The smallest bones, dall'Album "Cathedral", 2006). Il pezzo è accompagnata da video suggestivo e paradossale, compreso tra il cielo e il linguaggio dei muti.

My God
It’s an eternity
Waiting for thee

There’s a cancer
In the smallest bones
In the smallest breeze

And the houses
Have not grown their wings
We’ve no sleep
Among those stars

And our streets flow
Downward from those hills
They don’t get very far

And my Lord
It’s an eternity
Waiting for thee

And my Lord
It’s an eternity
Waiting for thee

Mio Dio
È un’eternità
Aspettarti

C’è un cancro
Nelle ossa più piccole
Nelle brezze più leggere

E alle case
Non sono cresciute le ali
Non abbiamo sonno
Tra queste stelle

E le nostre strade scendono
Giù da queste colline
Ma non vanno troppo lontano

E mio Signore
È un’eternità
Aspettarti

E mio Signore
È un’eternità
aspettarti


Quaggiù, in effetti, le cose non vanno troppo bene, a tal punto che, come chiosa il profeta: "tutti siamo avvizziti come foglie" (Isaia 64,3). Eppure - scriveva ancora Matteucci – “si vede meglio la struttura della foglia quando è secca, e non rimane che l’intreccio delle nervature.
L’inquietudine ci fa comprendere quel che siamo, sentire quel che possiamo o non possiamo essere, che la felicità è connessa al lavoro irriducibile di questa nostra faticosa esistenza, e che un mattino dobbiamo partire per ritrovarci, analogia e numeri dispersi, nella Realtà. E’ la confessione di Agostino: Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te".


Chissà cosa pensa Dio dall’alto del Cielo. Da poco più su della terra le cose acquistano tutt’altra prospettiva. Dalla stratosfera gustano già d’eterno e di una pace che supera le incongruenze di ogni giorno. 
Forse anche Dio è inquieto. Inquieto di un amore - torno di nuovo a Matteucci - che è “estrema indulgenza e estrema indigenza .. per l’inquietudine Dio, per così dire, si traveste e scende in quel territorio occupato dal Nemico che è tanto spesso il nostro cuore”.  

Agli uomini inquieti sotto il cielo stellato resta il desiderio di colmare una sete d’infinito sempre pronta a riaffiorare, di scoprire ciò che lega il cielo e la terra, l’umano e il divino, il tempo e l’eterno. L’attesa vigilante non resterà frustrata. Non è un caso, dopotutto, che l’intera Bibbia si chiuda con la luce di una stella: “Io Gesù … sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino” (Ap. 22,16).

Buon Avvento, dunque, e buon Avvento inquieto.