Perché alla gente piacciono le stelle?
Una ventina d’anni fa - nel finale di un disco imperdibile -
se lo domandava anche un’inquieta cantautrice a stelle e strisce. Ma sarà poi
così vero? Per le strade incrocio teste basse e dita che corrono frenetiche su
piccole luci molto terrestri. La notte, accecata perfino nei piani più alti
dalle luci e dalle distrazioni della vita urbana, segue un ritmo differente da
quello del firmamento.
Quando il cielo è nitido, alzando lo sguardo dai vicini dietro
le finestre o dalle persiane socchiuse alle stelle abbassate sull’orizzonte, sono rimandato alla visione aperta, distesa, liberante, della volta celeste. Forse –
mi dico – in qualche angolo della città, in più sperdute frazioni di questo
paese…anzi, ancora più là, oltrepassati monti e deserti, ancora più là dell’Asia
dove scorrazzava il pastore errante, altri occhi puntano il cielo senza saper
cosa dire, spersi sotto le stelle, ma sollevati per un attimo dal ritmo del
mondo quaggiù. Sotto la silenziosa maestà delle stelle, perlustrando la
porzione di globo nelle tenebre, non troverei soltanto coppie di innamorati, ma
pure disperati in mezzo al mare e inermi assediati da sanguinari mozzatori di
teste, oppure vittime di sistemi corrotti e violenti. Assai più vicino, a poco
meno di cinquanta metri, sono sicuro, d’altra parte, di trovare uomini e donne
di cui conosco il nome con la schiena su uno scalino, rimbacuccati tra infiniti
sacchetti a contendersi lo spazio con i topi.
“Sono lontane, ma a guardarle si sta al sicuro”, recitava
la canzone di cui sopra. Sotto le stelle si vive una certa inquietudine. Lassù
c’è una realtà misteriosa e infinita che ci supera nello spazio e nel tempo.
Quaggiù, invece, piccole cose finite che tanto fanno penare o gioire.
“Se
guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai
fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te
ne curi?” (Salmo 8,4-5) Il salmista non sfuggiva agli stessi interrogativi,
perché da sempre gli uomini hanno desiderato tenere insieme il cielo e la
terra. Anche per questo attorno alla notte è fiorita una sconfinata ed inquieta
letteratura.
La notte domina il Vangelo di questa prima domenica d’Avvento
ed è una notte inquieta. Il padrone se n’è andato senza lasciar detta l’ora del
ritorno, ma affidando i compiti ai suoi servi. “Vegliate dunque: voi non sapete
quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del
gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi
addormentati” (Mc 13,35-36).
Una lettura breve che suona quasi minacciosa e lascia
nell’inquietudine di un ritorno promesso ma inaspettato.
Benvenuto Matteucci, prete pistoiese poi arcivescovo di Pisa, ma anche appassionato cultore
di letteratura, ha scritto un bel saggio sull’inquietudine (Introduzione a F. Castelli, Letteratura dell’inquietudine, Milano 1964). Qui parlava di “una inquietudine originale nativa e ontologica … propria dell’uomo,
di ogni uomo, anima immortale, circoscritta nei limiti corruttibili dello
spazio e del tempo”.
Chi guarda il cielo avverte meglio questi "limiti corruttibili". Sotto le stelle, infatti, chi veglia può interrogare il Cielo con più facilità. Non sarà un caso se Gesù la notte saliva sul monte a
pregare. Forse con le stelle davanti agli occhi era più semplice parlare con il
Padre.
Gli uomini hanno creduto di rintracciare nelle stelle i segreti della storia di questo e dell’altro mondo e attraverso di esse hanno pensato ai loro morti. Nella Via Lattea, ad esempio, trovavano nuova vita gli uomini virtuosi e da lassù, racconta Cicerone nel cosiddetto “Sogno di Scipione” : “tutto pareva magnifico e meraviglioso. C'erano, tra l'altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto ... I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo” (III, 16). Nel cielo, poi, i cristiani collocarono i santi, cercando di cucire definitivamente il finito e l’eterno. Ma di fronte al cielo anche il cristiano resta sulla soglia.
Gli uomini hanno creduto di rintracciare nelle stelle i segreti della storia di questo e dell’altro mondo e attraverso di esse hanno pensato ai loro morti. Nella Via Lattea, ad esempio, trovavano nuova vita gli uomini virtuosi e da lassù, racconta Cicerone nel cosiddetto “Sogno di Scipione” : “tutto pareva magnifico e meraviglioso. C'erano, tra l'altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto ... I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo” (III, 16). Nel cielo, poi, i cristiani collocarono i santi, cercando di cucire definitivamente il finito e l’eterno. Ma di fronte al cielo anche il cristiano resta sulla soglia.
Meglio che altrove, però, il Signore sussurra attraverso
le stelle. Gregorio Magno, ad esempio, parlava di celesti sussurri: “il divino
sussurro giunge a noi attraverso tante vene quante sono le opere create che la
divinità stessa presiede. Quando contempliamo l’opera creata ci eleviamo ad
ammirare il creatore…poiché non possiamo avere di lui una conoscenza adeguata,
non sentiamo la sua voce, ma appena un sussurro. E siccome non siamo in grado
di conoscere a fondo neppure le stesse cose create, giustamente si dice: Quasi
furtivamente il mio orecchio percepì le vene del sussurro” (Commento morale a
Giobbe, parte prima, V, 52).
Il sussurro però non ci appaga e la distanza che separa il tempo e l'eterno, la mutevolezza e la Verità immutabile, talvolta trasforma l'inquietudine in angoscia: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!”
Il profeta Isaia (63,19), nella seconda lettura di questa Domenica, ci leva di bocca il grido che agita i nostri momenti difficili.
Per Raymond Raposa, folk singer dell’Oregon attorno a cui ruota una band polimorfa chiamata Castanets, questa inquietudine è trasfigurata in un asciutto brano di poesia-canzone (The smallest bones, dall'Album "Cathedral", 2006). Il pezzo è accompagnata da video suggestivo e paradossale, compreso tra il cielo e il linguaggio dei muti.
Il profeta Isaia (63,19), nella seconda lettura di questa Domenica, ci leva di bocca il grido che agita i nostri momenti difficili.
Per Raymond Raposa, folk singer dell’Oregon attorno a cui ruota una band polimorfa chiamata Castanets, questa inquietudine è trasfigurata in un asciutto brano di poesia-canzone (The smallest bones, dall'Album "Cathedral", 2006). Il pezzo è accompagnata da video suggestivo e paradossale, compreso tra il cielo e il linguaggio dei muti.
My God
It’s
an eternity
Waiting
for thee
There’s
a cancer
In the
smallest bones
In the
smallest breeze
And
the houses
Have
not grown their wings
We’ve
no sleep
Among
those stars
And
our streets flow
Downward
from those hills
They
don’t get very far
And my
Lord
It’s
an eternity
Waiting
for thee
And my
Lord
It’s an eternity
Waiting for thee
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Mio Dio
È un’eternità
Aspettarti
C’è un cancro
Nelle ossa più piccole
Nelle brezze più leggere
E alle case
Non sono cresciute le ali
Non abbiamo sonno
Tra queste stelle
E le nostre strade scendono
Giù da queste colline
Ma non vanno troppo lontano
E mio Signore
È un’eternità
Aspettarti
E mio Signore
È un’eternità
aspettarti
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Quaggiù, in effetti, le cose non vanno troppo bene, a tal punto che, come chiosa il profeta: "tutti siamo avvizziti come foglie" (Isaia 64,3). Eppure - scriveva ancora Matteucci – “si vede
meglio la struttura della foglia quando è secca, e non rimane che l’intreccio
delle nervature.
L’inquietudine ci fa comprendere quel che siamo, sentire
quel che possiamo o non possiamo essere, che la felicità è connessa al lavoro
irriducibile di questa nostra faticosa esistenza, e che un mattino dobbiamo
partire per ritrovarci, analogia e numeri dispersi, nella Realtà. E’ la
confessione di Agostino: Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te".
Chissà cosa pensa Dio dall’alto del Cielo. Da poco più su della terra le cose acquistano tutt’altra prospettiva. Dalla stratosfera gustano
già d’eterno e di una pace che supera le incongruenze di ogni giorno.
Forse anche Dio è inquieto. Inquieto di un amore - torno di nuovo a Matteucci - che è “estrema indulgenza e estrema indigenza .. per l’inquietudine Dio, per così dire, si traveste e scende in quel territorio occupato dal Nemico che è tanto spesso il nostro cuore”.
Forse anche Dio è inquieto. Inquieto di un amore - torno di nuovo a Matteucci - che è “estrema indulgenza e estrema indigenza .. per l’inquietudine Dio, per così dire, si traveste e scende in quel territorio occupato dal Nemico che è tanto spesso il nostro cuore”.
Agli uomini inquieti sotto il cielo stellato resta il
desiderio di colmare una sete d’infinito sempre pronta a riaffiorare, di
scoprire ciò che lega il cielo e la terra, l’umano e il divino, il tempo e l’eterno.
L’attesa vigilante non resterà frustrata. Non è un caso, dopotutto, che l’intera
Bibbia si chiuda con la luce di una stella: “Io Gesù … sono la radice della
stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino” (Ap. 22,16).