giovedì 2 ottobre 2014

La 'solitudine' di chi non è solo

per Luca e Emanuele

«Quanto ti manca?»
Il seminarista se lo sente ripetere e se lo ripete spesso. Quantificare la distanza dall’ordinazione è un esercizio quasi quotidiano. Il countdown è sempre sotto gli occhi e rifrulla nella mente, anche in quella del più devoto o bizzarro candidato al sacerdozio. Durante la messa, in seminario o in collegio, già prefigura atteggiamenti, parole, accessori che farà suoi o che rifiuterà. Un meccanismo spesso irriflesso e in buona fede che interviene sempre più man mano che l’ora fatale si avvicina. Quasi al punto da far dimenticare l’unica ora davvero importante: quella della santificazione. E l’ora della santificazione è oggi! 

Il rischio di posticipare l’impegno per la santità, di rimandare la consapevolezza dell’integralità di una scelta al futuro più o meno prossimo può provocare indesiderati effetti collaterali. Primariamente c’è il rischio di sfibrare la grazia dei giorni donati, quel tempo di grazia irripetibile in cui si articolano le nostre giornate, e di farlo cadere nell’indistinto di una attesa inquieta. Dopotutto è un atteggiamento molto umano, ma proprio per questo il frutto della mentalità mondana che rimanda l’azione alla funzione e non alla dinamica del discepolo. Dio chiama oggi. Poi, con la pienezza della consacrazione, abiliterà e indicherà altri uffici. Dio chiama oggi, e il domani è soltanto nelle sue mani. Ad una mamma occorrono circa nove mesi per arrivare al parto. Ad un seminarista circa 6 anni, senza contare i tardivi e i prematuri. Ma che guaio se una donna non si ricordasse di essere già mamma mentre affronta la gestazione! Gesù, con la sua Parola, scuote i dinamismi che ci distraggono dall’essenziale e ci introduce in una nuova parentela. Con Lui siamo condotti in una forma di rapporti che scaturisce dall’oggi. «Donna, ecco tuo figlio!» Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!» (Gv 19,26-27).


 «Ecco»: nella Bibbia ritorna spesso questa parolina, specialmente nei libri dell’antico testamento, dove è pietra d’inciampo della traduzione dall’ebraico (hinnē), che indica il qui e ora della presenza e dell’accadere. Gesù ci introduce in una nuova serie di legami. Ci sono quelli verticali, come la figliolanza divina a cui ci apre il Battesimo e la comunione sospesa tra cielo e terra che è propria dei santi. Quelli orizzontali, che dicono la parentela, l’amicizia, la comunione della sequela, passano attraverso l’obbedienza sofferta e sofferente. «Donna, ecco tuo figlio!». Sotto la croce si rivela una nuova maternità che nasce dalle lacrime, ma una maternità ancora più ampia, totalmente inedita. «Ecco tua madre!»: una nuova figliolanza che supera l’amicizia nella relazione della carne. L’uomo in quanto nuova persona è trasformato, reso diversamente fecondo. 

Le ordinazioni diaconali che scandiscono gli appuntamenti dei seminaristi e il ritrovarsi degli amici fanno ripensare anche a questo. Durante la celebrazione l’amico, ormai novello diacono, è balzato in pochi minuti al fianco del vescovo. Come diacono, infatti, il ‘chiamato’ è introdotto in una nuova relazione : quella di figliolanza con il vescovo, di servizio d’amore a Lui nella Chiesa. Il diacono (specialmente se destinato al sacerdozio) è un uomo nuovo. Tra addetti ai lavori si parla di ‘salto ontologico’, di ‘sigillo’, di ‘carattere indelebile’, ma forse si può dire altrettanto bene che con l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria il diacono è introdotto in un diverso stato di vita: è della famiglia ma non più solo della famiglia. E’ degli amici, ma non più solo degli amici. E’ dei fratelli, ma non più solo dei fratelli. E’ se stesso, ma non più come solo a sé stesso. La sua posizione all’altare, accanto al vescovo, segnala visibilmente una nuova appartenenza: quella allo stato clericale. Inserito in questo nuovo stato, anche l’amicizia si trasforma, cresce, si amplifica in Cristo. 



In questo processo di spossessamento e ridefinizione il seminarista, poi diacono e quindi prete -a Dio e vescovo piacendo- entra paradossalmente anche nella dimensione della solitudine. Una solitudine sui generis. Una solitudine che è croce quotidiana, dovuta ad una scelta volontaria, alla sequela di Gesù. Solitudine che il mondo non capisce e neppure si lascia incasellare nelle categorie degli uomini, neppure in quella degli uomini soli che cantavano i Pooh.

Durante l’estate, in viaggio, al campo estivo, o in esperienze di servizio, l’esperienza comunitaria trova nuove forme, momenti comuni di particolare intensità. Il seminarista si lascia alle spalle la fatica della vita comune e cade nell’eccitazione di una nuova e diversa compagnia. Esperienze stupende, ma che chiedono di essere lette alla luce di Dio. E difatti, al ritorno, nei percorsi e nei luoghi consueti, l’esaltazione rischia di trascolorare presto nella fatica della solitudine. In queste montagne russe di eccitazione e desolazione occorre distinguere bene lo psichico dallo spirituale. Ne ha parlato con acuta e drammatica chiarezza (siamo nel 1938) Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano ucciso in un campo di concentramento per la sua opposizione al regime nazista. «Nulla è più facile che risvegliare l’ebbrezza della comunione in pochi giorni di vita comunitaria, e nulla è più fatale per una vita comunitaria sana, sobria e fraterna nel lavoro quotidiano. Non ci sono molti cristiani a cui Dio non conceda, almeno una volta nella loro vita, la esperienza inebriante di una vera comunione cristiana. Ma una simile esperienza in questo mondo non rimane altro che un sovrappiù, una grazia concessa oltre al pane quotidiano di una vita comunitaria cristiana» (La Vita Comune, Queriniana, Brescia 1969, pp. 68-69).

Lanciano, miracolo eucaristico

Ed ecco, appunto, che il seminarista-diacono-prete sperimenta davvero e pesantemente questa solitudine. Vorrebbe confidare agli amici di prima movimenti interiori e la modellazione continua dello Spirito, ma il mondo attorno sembra muoversi a differente velocità, sintonizzato su altre frequenze. Ritroverà il passo, la sintonia di un tempo? Il servizio, l’ascolto, l’amore, individueranno poco a poco inediti e più profondi canali, anche se meno immediati e più impegnativi. Oggi, forse, può cogliere intuitivamente la novità proposta dal Signore. Davanti al tabernacolo è più facile farlo. Il Signore è sempre lì, pazientemente in attesa e in ascolto. La solitudine è superata dalla Presenza a cui si apre la vita del discepolo. Presenza che dovrebbe sopraffare la nostra stessa realtà, e invece si mantiene piccola e nascosta nella comunione della carne e del sangue. Presenza continua, anche se oscura, ma indisponibile a schematizzazione e a pianificazioni temporali che sono prodotti mondani e, alla fine, molto personali.

Gesù custodisce la nostra solitudine e la comunione con gli altri. «Un cristiano – scrive ancora Bonhoeffer- ha bisogno dell’altro per Gesù Cristo. Un cristiano incontra l’altro solo per mezzo di Gesù Cristo. In Gesù Cristo siamo eletti fin dall’eternità, accolti nel tempo e uniti per l’eternità»(Ibidem, p.46). Senza Cristo non possiamo incontrare gli altri: «la via è bloccata dal nostro stesso io. Cristo ha aperta la via a Dio e al fratello. Ora i cristiani possono amarsi e servirsi gli uni gli altri, possono divenire uno. Ma anche ora lo possono solo tramite Gesù Cristo» (Ibidem, p. 49).  


Il seminarista che avanza sulla strada della formazione non si è scelto la compagnia e si trova inserito in una comunità le cui regole, a pensarci bene, risultano almeno illogiche per il mondo. In questa curiosa combriccola, dalla mattina alla sera, attraverso la preghiera, lo studio, le chiacchiere e i servizi comunitari,oscilla tra la solitudine e la vita comune. Eppure, puntualizza Bonhoeffer: «Chi desidera comunione senza solitudine, precipita nella vanità delle parole e dei sentimenti; chi cerca la solitudine senza la comunità, perisce nell’abisso della vanità, dell’infatuazione di se stesso, della disperazione. Chi non sa restare solo tema la comunità. Chi non è inserito nella comunità tema la solitudine. La giornata comune del gruppo comunitario è accompagnata dalla giornata solitaria di ogni membro» (Ibidem, p. 121). L’equilibrio ottimale di una comunità spirituale è un obiettivo impegnativo, ma anche un dono di grazia. La Parola e la presenza eucaristica ci rimettono continuamente in carreggiata e preparano alla navigazione adulta e personale del diacono e del prete fuori dal seminario/collegio.

Santuario di S. Gabriele dell'Addolorata
Urna con il corpo di San Gabriele

Anche la solitudine dell’eremita o del monaco non si configurano come le immaginerebbe il mondo. Il cammino verso la santità apre la solitudine alla fecondità dell’amore. Santi vissuti nel nascondimento o nella solitudine hanno attratto, più di ogni propaganda o pubblicità, generazioni di uomini e donne. Ai piedi del Gran Sasso, ad esempio, sperduto tra i pascoli e le balze, seguendo la regola di Paolo della Croce, San Gabriele dell’Addolorata ha percorso un’esistenza «conforme a quella degli apostoli » in un «profondo spirito di preghiera, di penitenza e di solitudine per conseguire una più intima unione con Dio ed essere testimoni del Suo amore» (Costituzioni della Congregazione della Passione di Gesù Cristo, Cap. 1, 1). Accantonata una brillante vita mondana, l’esistenza di Gabriele è trascorsa rapidamente tra la formazione e la preghiera, senza episodi di particolare risalto. Un’esistenza apparentemente poco fruttuosa e nascosta, troncata presto dalla malattia. Poi anni di silenzio fino a quando, attorno alla sua tomba, si moltiplicano i miracoli. «Dio – scriveva San Gabriele - non guarda il quanto ma il come; la nostra perfezione non consiste nel fare le cose straordinarie ma nel fare bene le ordinarie». Una piccola via che può quasi irritare tanto è dimessa e remissiva. Ma forse chi attraversa la solitudine e l’oscurità con questa piccola consapevolezza, ha imparato l’umiltà dell’obbedienza e superato la tentazione della diserzione.

«Non si può negare- scriveva Benvenuto Matteucci, pistoiese ( o ancora meglio carmignanese) trapiantato arcivescovo a Pisa tra il 1971 ed il 1986- che la solitudine rappresenta per un prete una croce quotidiana, dovuta ad una scelta volontaria, alla sequela di Gesù». Una solitudine agitata dall’inquietudine. «Vi è in noi – prosegue Matteucci - una triplice inquietudine: storica, soprannaturale, patologica. Il Signore ci ha fatto per sé ed è inquieto il nostro cuore finché si riposi in Dio (inquietudine storica, agostiniana). Nulla o ben poco si è fatto, quando tanto resta da fare: “Inquietatevi di non inquietarvi” : scriveva Newman (inquietudine soprannaturale). E infine l’inquietudine di chi si gratta la piaga, senza tener conto della realtà della vita e di una risoluzione spirituale (inquietudine patologica). L’inquietudine, che nasce dall’esser soli, dal sentirsi soli, si risolve non solo nel lavoro, nell’applicazione pastorale, con la fraternità e l’amicizia pastorale, con la fraternità e l’amicizia sacerdotale; ma soprattutto all’interno con la preghiera e i mezzi sacramentali» (B. Matteucci, Fraternità Sacerdotale, Pacini Editore, Pisa 1983, p. 431).
«
Non siamo soli – chiosava Matteucci - quando abbiamo Dio con noi e possiamo aprirci a Lui. Conosciamo la noia solo quando si è privati di Dio … La solitudine conduce sempre l’uomo al male quando la sofferenza che l’accompagna non diventi sacramento e presenza del Cristo» (Ibidem, p. 234).