sabato 12 agosto 2023

Cuori giovani e pavoni

«What I was made for?» Per cosa sono stata fatta? Lo domanda Billie Eilish, che presta le parole a Barbie, catapultata nella complessità del mondo reale da quello chiccherelloso e artificiale delle bambole. Però la questione è seria e in fondo entra come una lama nel burro di scenari contemporanei vuoti di proposte e risposte decisive. O forse, ancora di più, inclini a  silenziare le domande decisive.
Per cosa sono stata/o creato?
In viaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona l'interrogativo piove su chi, tra i 16 e i 20 anni, cerca di dipanare la matassa che ingarbuglia la mente, il corpo e il cuore.


Di queste giornate si dice molto, ma non è facile tradurre in parole quel che nelle parole non ci sta, perché eccedente, nei numeri, come nelle emozioni, negli incontri, come nella bellezza che ti si ribalta addosso ad ogni angolo di strada, dentro i volti, le mani, le voci che ti guardano, ti cercano, ti chiamano.

Per mettere ordine nei pensieri che ruotano attorno a quei giorni mi vengono in mente tre parole.

La prima è ascolto. Siamo abituati, specialmente in ambito ecclesiale, a ridirsi che occorre "ascoltare i giovani": cosa sacrosanta, più invocata che praticata. 
Però nei giorni portoghesi uno si accorge quanto i giovani sappiano ascoltare. Ascoltano le parole del Papa, quelle dei loro coetanei, dei don che li accompagnano. Hanno fiuto per quel che vale la pena ascoltare. Si dirà che non tutti erano consapevoli e attenti, che poi non li ritrovi sempre sulle panche in parrocchia; che c'è da tener conto della logica dei grandi numeri. Però l'esperienza insegna che una parola o un gesto possono restare agganciati anche alle antenne più distratte o refrattarie. A chi predica o accompagna, questa disponibilità all'ascolto che poi è preludio ad aperture del cuore, a racconti di sè che non si sottraggono alla commozione, può anche suggerire, ogni tanto, di tacere.


La seconda parola è identità. In un senso però molto diverso da quello in cui si pone, generalmente, nel mainstream del pensiero, la questione identitaria. Un'identità cioè, che non risponde primariamente alla domanda: «chi sono?» Ma ad un altro interrogativo che mi sembra più "drammatico" per un giovane: ma io, «per chi sono?» E cioè: la mia vita conta davvero per qualcuno? Qualcuno si accorge che esisto?  Mi merito di essere amato così incondizionatamente da Dio? Conto davvero qualcosa per i miei genitori, i miei prof, gli amici, o sono soltanto capace di sbagliare, deludere, non riuscire a raggiungere i risultati che il mondo si attende da me (o quel che penso si attenda il mondo da me?). 

Le ansie che si agitano nel cuore di tanti ragazzi fanno pensare. «A volte - commentava con acutezza un giovane pellegrino - abbiamo più paura della luce che è in noi che dell'ombra». Allo stesso tempo ti accorgi che la vita fiorisce quando qualcuno ti dice che vali, che «non sei un numero», ma una creatura unica e irripetibile, voluta e amata da Dio. È in fondo l'identità che esprimono bandiere, maglie e spillette della Gmg; che non raccontano un'identità fatta per distinguere o prevalere, contrapporsi o difendersi, ma ricchezza da condividere, con cui andare incontro all'altro e cantare la bellezza che ci si porta dietro.

Per raggiungere il centro della propria identità, il pellegrinaggio a Lisbona racconta, una volta di più, la forza rivoluzionaria della tenerezza, del cuore trasparente e diretto di quelli che chiamiamo disabili, che pure custodiscono il segreto di un'abilità che i grandi registi del consumo mondiale pagherebbero oro per acquisire, quella di parlare dritto al cuore, di smuovere ogni resistenza o presunzione, di smascherare, come spiegava un altro pellegrino - «i filtri che complicano le nostre relazioni». Il carisma dei "ragazzi", dei più fragili, dei "piccoli", oggi più che mai rivela una forza capace di curare ferite e fragilità che gli specialisti sanno spesso soltanto certificare. 


La terza parola è croce. Col passare dei giorni il pellegrinaggio, con le sue fatiche e i suoi intoppi, con la preghiera e la confidenza, permette di comprendere che nonostante i richiami di divertimento o distrazione mondani non è possibile scansare la realtà della croce. Dentro un cuore giovane non c'è soltanto e primariamente una spensierata allegria. Nelle «montagne russe» delle emozioni vissute a Lisbona ci siamo confrontati con la complessità, ma anche con qualcosa di più grande. «Credo di non aver mai conosciuto la vita come in questi giorni», affermava una ragazza durante una condivisione. «La grazia - commentavano altri - non passa solo attraverso i momenti di gioia, ma anche di pena e di dolore», e altre voci hanno aggiunto: «Ho imparato l'arte di essere fragili e l'arte di essere forti». D'altronde «quando sono debole - ricordava San Paolo - è allora che sono forte». È la scoperta tracciata da un amore più grande, che intreccia ogni cosa, ti cerca, ti sostiene, accompagna in silenzio, perdona, fa entrare nello spessore della vita, attende risposta.


Sono le acquisizioni fondamentali della vita di fede, che ti arrivano addosso come una ventata improvvisa e ti fanno intuire per cosa sei stata/o creato. Nelle crisi che non controlli o negli imprevisti del viaggio, nel malessere che blocca chi hai accanto e chiede di rimodulare nei ritmi e nei modi il tuo viaggio, nell'orizzonte che si apre oltre la linea del mare, nel sole che si colora di rosso al tramonto, nel silenzio che nella notte riempie la distesa di giovani in preghiera lungo le rive del Tago o nelle apparizioni improvvise della grazia. 
Come nei tre pavoni planati in mezzo alle confidenze dei giovani, antichi richiami di bellezza ed eternità per chi è pellegrino in questo mondo.