Mi ha chiamato Fabio per dirmi che era triste perchè è morto il Papa. Mi diceva: «il Papa era contento quando mi aveva visto». A dire il vero non so se Francesco l'abbia proprio visto, ma di certo noi abbiamo visto lui, insieme a tante altre persone, giovani e pellegrini. Però quella frase di Fabio, che è un ragazzo down con cui abbiamo condiviso tante esperienze, come la Giornate mondiali della Gioventù, mi sembra un bel modo di ricordare il Papa. Lui, se n'è andato in punta di piedi, il giorno di Pasquetta, quando tutti erano distratti per la gita fuori porta o una dormita più lunga del solito. Ora tornano in mente gesti, parole, anche contestazioni e polemiche. Francesco non era il papa della santità eroica di Giovanni Paolo II, tantomeno un papa professore e teologo come Benedetto XVI. Un papa "uno di noi", un "parroco del mondo", capace di mille delicate attenzioni e scelte decisioniste, con i suoi pregi e i suoi difetti, in grado di farsi intendere da tutti, ma proprio tutti, di passare dalla cattedra di Pietro all'apparizione televisiva al festival di Sanremo. Qualche giorno prima dell'elezione un mio amico argentino lo escludeva dai papabili: «E questo chi è - gli domandavo scorrendo le foto dei cardinali sul giornale -. Lo conosci?». «Ah, ma lui no, prende il bus, va al mercato, è uno semplice..». In piazza san Pietro il giorno della Messa di inizio pontificato, nella solennità di san Giuseppe, uscirono subito alcuni passaggi chiave del suo futuro magistero come la custodia del Creato e un "potere" che si fa servizio. Però a me rimase impresso quando parlò della "tenerezza": «non abbiate paura della tenerezza». Dall'Omelia di inizio pontificato (Piazza San Pietro, 19 marzo 2013)
Papa Francesco è stato il Papa delle periferie. Nei suoi viaggi ha privilegiato paesi in cui i cristiani sono minoranza, talvolta davvero piccola. In Mongolia, dove i cattolici sono poco più di 1000 in tutto il paese, aveva salutato una donna, che una decina di anni prima aveva riportato a casa una statua di legno della Madonna che aveva trovato in una discarica: “questa bella signora è voluta venire ad abitare nella mia tenda” e il papa era andato a visitarla. Ogni giorno, fin quasi all'ultimo, ha chiamato al telefono la parrocchia di Gaza. A Lesbo in visita ai profughi lì ospitati, raccolse i disegni dei bambini profughi e lì mostrò al mondo di ritorno sull'aereo. Nel suo primo viaggio a Lampedusa, all'indomani di una - l'ennesima - strage di migranti nel Mediterraneo, pronunciò espressioni poi diventate proverbiali, come la "globalizzazione dell'indifferenza".
Dall'Omelia della Santa Messa nel campo sportivo "Arena" (Lampedusa, 8 luglio 2013)Palma, un'anziana signora, non parlava da anni con la sorella. Mi aveva raccontato di vecchie ruggini e poi di parole e gesti mai digeriti. Ma una domenica mattina aveva sentito una parola del Papa pronunciata all'Angelus che invitava al perdono, a riconciliarsi in famiglia e aveva alzato la cornetta. Qualcosa di inatteso era accaduto. A me pare una grazia grande quanto un motu proprio, forse più grande della nomina del prefetto di un dicastero vaticano. Ma d'altra parte, come il Papa ricordava in uno dei suoi documenti più belli, "Gaudete et exsultate" la santità passa dai "piccoli particolari dell'amore". Cosa avesse in testa il Papa quando parlava di Chiesa lo espresse bene a Firenze, in occasione del Convegno Ecclesiale della Chiesa italiana, dove tornava fuori un'altra sua espressione rimasta emblematica: quella di una Chiesa in uscita, «accidentata, ferita e sporca». Dal discorso pronunciato in occasione del V Convegno Ecclesiale della Cei (Firenze, Santa Maria del Fiore, 10 novembre 2015)
Non è possibile dimenticare, in tempi più recenti, il discorso in occasione del momento di preghiera per la pandemia e ancora di più l'immagine iconica di un Papa solo nella piazza deserta e bagnata dalla pioggia, nel silenzio di minuti che hanno parlato all'umanità intera. La pandemia, purtroppo, ha segnato anche un crescere delle tensioni interne alla Chiesa e l'immagine della barca nella tempesta, già ricordata da un papa Benedetto quasi al termine del suo pontificato, tornava ad esprimere le svolte faticose della Chiesa nel tempo.
Un disegno preparato per la Via Crucis col Papa realizzata dai bambini nel 2021
Dal discorso pronunciato in occasione del momento straordinario di Preghiera in tempo di epidemia (Piazza San Pietro, 27 marzo 2020)
Per chi ha vissuto l'esperienza delle Giornate mondiali della Gioventù l'incontro con Papa Francesco aveva il sapore del dialogo con uno "di famiglia", un "motivatore" sempre pronto a comprendere, capace di un linguaggio semplice e chiaro. A Rio, la sua prima Gmg, diceva che «la gioventù è la finestra attraverso la quale il futuro entra nel mondo .. la nostra generazione si rivelerà all’altezza della promessa che c’è in ogni giovane quando saprà offrirgli spazio» (Papa Francesco, Cerimonia di benvenuto a Rio de Janeiro, 22 luglio). Il Papa c'ha provato, specialmente con il Sinodo dei giovani (2018) da cui è uscito uno dei suoi testi più belli, l'esortazione "Christus vivit" (2019).
Dal discorso pronunciato in occasione della Veglia al Parque Tejo durante la GMG di Lisbona (5 agosto 2023)
Un passaggio, questo della Veglia della Gmg di Lisbona, in cui tornava un tema caro al pontificato di papa Francesco, quello della gioia. Un aspetto decisivo, che testimoniava il suo sorriso e che trova radice nella "gioia del Vangelo" che ha raccontato e invitato tutti a comunicare nel suo documento più bello e importante: "Evangelii Gaudium". C'è però un passaggio, che si può spulciare nell'enciclica Fratelli tutti, in cui il papa racconta qualcosa di sè, che mi pare bello e capace di fare sintesi di molti suoi gesti e parole. Qui cita una canzone, un brano musicale di cui rammenta il disco e la data di registrazione in Argentina: «Vinicius De Moraes, Samba della benedizione (Samba da Bênção), nel disco Um encontro no Au bon Gourmet, Rio de Janeiro (2 agosto 1962)». Un brano che gli deve essere stato caro da cui citava un verso e avviava una riflessione molto personale:
«La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita». Tante volte ho invitato a far crescere una cultura dell’incontro, che vada oltre le dialettiche che mettono l’uno contro l’altro. (...) Da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è superfluo. Ciò implica includere le periferie. Chi vive in esse ha un altro punto di vista, vede aspetti della realtà che non si riconoscono dai centri di potere dove si prendono le decisioni più determinanti».
Altri due sguardi sul mondo. Due sguardi che suggeriscono “strategie”
alternative che consegniamo all’anno nuovo. Due sguardi nostrani, che però
dirazzano dal mainstream e perlustrano la realtà e la creazione artistica come
occasione meditativa, a partire dalla propria esperienza personale o dai
movimenti della storia.
Un fermento che emerge qua e là anche nel panorama
giovanile, un’attesa di profondità che suona fresca, priva di pregiudizi –
certo, senza nemmeno troppi punti di riferimento, ma comunque aperta ad “altro”.
E insomma, il primo sguardo lo trovo in una giovane
cantautrice che si chiama Gaia Morelli. E in particolare in un disco dal titolo
accattivante: “La natura delle cose” (Dischi sotterranei, 2024).
Le “cose” di cui parla Gaia sono quelle
più ordinarie, un po’ come prova a restituire il videoclip che raccoglie, come
in un cortometraggio di tre capitoli, altrettanti brani dell’album. Il primo, “Siamo
stonati”, descrive momenti di vita di Gaia, con un approccio tra il
fenomenologico e il meditativo che diventa occasione di una riflessione sulla propria
storia personale, l’occasione in cui misurare la fatica di cogliere le
dinamiche profonde che definiscono la nostra “forma”: «Siamo stonati fra tanti / Chi lo sa
fra quanto tempo riusciremo a diventare grandi».
Il secondo capitolo, “Lo Spazio”, descrive una sorta di
pellegrinaggio dal sapore esistenziale, come recitano le parole della prima
strofa: «Con
il cambio di stagione / io sono andata, non ritorno / Fa molto caldo/Te ne sei accorta / Sai che puoi piangere / Ho
ancora i miei drammi». Così Gaia dalla periferia urbana attraversa la campagna,
scruta attorno a sè fino a uno “spazio” accogliente in cui «vivo
per un motivo». Una bella immagine per provare a descrivere una “via”
contemplativa, un’alternativa al disincanto e ai drammi dell’ordinario.
Nel terzo capitolo, “Fine”, il video è tutto concentrato su
di lei,immersa nel buio, colta da un
lungo e lento allargarsi del campo di ripresa. Il testo esprime l’indole
meditativa dell’album: «È tanto veloce che le cose cambiano / Lo riconosco il
tempo sano / Analizzare piano piano sottovoce / La natura delle cose / Fino a
sparire un po'/».
Ma cos’è la natura delle cose? In un’intervista Gaia la
spiega così: «La Natura delle cose è quasi l’essenza delle cose che viviamo e
facciamo, in qualche modo il trovare una qualche forma di pace».
Un approccio molto femminile, come femminile è quel
passaggio che accompagna la liturgia dell’inizio dell’anno, dedicata alla
solennità di Maria Santissima Madre di Dio, quando l’evangelista Luca dice – e lo
ripete due volte: Luca 2, 19 e 2, 51 – che Maria «custodiva tutte queste cose,
meditandole nel suo cuore». E mi piace che non dica che le capiva, ma che le
meditava, custodendo il mistero delle cose, provando a cucire insieme, nei
tempi e nei modi che la vita e la grazia concede, l’agire dell’uomo con quello
di Dio, le cose e il loro senso.
L’altro sguardo è quello di Vasco Brondi, che circa un anno
fa usciva con “Un segno di vita” (Carosello Records 2024). Il brano è frutto di un artista più maturo,
che qualcuno ricorda sotto l’etichetta di “Luci della centrale elettrica”, ma
che ora propone un cantautorato italianissimo, musicalmente forse un po’ già sentito ma molto raffinato, dove
le parole suonano in certi passaggi come poesia.
Il videoclip del brano che dà anche il titolo all'album, “Un segno di vita”, accompagna con delicatezza e la
forza di immagini evocative le parole del testo, descrivendo il cammino e le
scoperte di un ragazzino in mezzo alla natura, ma anche tra i libri, le carte
geografiche e di fronte alla suggestiva e un po’ enigmatica complessità degli
affreschi di Ercole de’ Roberti e Francesco del Cossa con il ciclo dei Mesi in
palazzo Schifanoia a Ferrara.
In “Un segno di vita” – quasi «una preghiera rumorosa», il
testo si arricchisce di molteplici riferimenti, alcuni dal sapore biblico, «distruggevano
e ricostruivano e ancora distruggevano e ricostruivano e ancora distruggevano e
ricostruivano e ricostruivano e ricostruivano», che suona quasi come un passo del
Qoelet (3,3) quando rammenta che «c’è
un
tempo per demolire e un tempo per costruire». Ma torna in mente anche il
profeta Geremia (1,10), a cui il Signore dà l’autorità «per sradicare e
demolire, / per distruggere e abbattere,/ per edificare e piantare», alludendo
al giudizio ma anche alla misericordia, a interpretare alla luce di Dio i
traumi della storia.
Ancora più direttamente evangelico il passaggio in cui Brondi
canta, quasi fosse una preghiera: «Ho ancora tanti errori da commettere / ti
prego lasciameli fare / Adesso lasciati guardare / nella luce artificiale o
nella luce naturale / che bel rumore fanno le cose / quando stanno per finire /
Resta con noi che si fa sera /resta con noi è quasi primavera». Parole che
ricordano il brano di Emmaus, quando i discepoli invitano lo sconosciuto
pellegrino, in realtà Gesù risorto, a fermarsi con loro a cena: «Quando furono
vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più
lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già
volge al declino”» (Lc 24,28-29). Un brano che suona in sintonia con la canzone
di Brondi, in cui accanto alla tragedia e alla delusione si aprono spazi di
luce e stupita speranza.
Per chi volesse approfondire c'è online anche un bel dialogo tra Vasco Brondi con il monaco Guidalberto Bormolini.
Uno sguardo contemplativo, se lo mettiamo accanto a quello di Gaia Morelli, forse più maschile, comunque un
invito a cogliere nel dramma del reale i segni di speranza. Un po’ come invita
a fare il Papa in questo anno santo 2025, un tempo in cui riconoscere i “segni
dei tempi” spesso drammatici del nostro tempo (guerre, migrazioni, squilibri
sociali, cambiamenti climatici…), e «porre attenzione al tanto bene che è
presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal
male e dalla violenza. Ma i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del
cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati
in segni di speranza».
In effetti il brano di Brondi ha il sapore di una meditazione sapienziale
sulla storia in cui accanto al dramma è possibile registrare inattesi “segni di
vita”: «Bombardano bombardano / e tutti guardano / Non arrivano le provviste / Non
arrivano le voci e le promesse/ Solo luci di stelle fisse/ che parlano di pace
/ e di apocalisse».
«Siamo in un’epoca di transizione – ha affermato l’autore in un’intervista
- , cioè, tutte le epoche poi possono essere considerate tempi bui o non
esserlo. Però la cosa che sempre possiamo fare, e qui mi viene da citare
Calvino che dice una cosa importante in merito, è cercare e saper riconoscere
chi e che cosa in mezzo all’inferno non è inferno e farlo durare e dargli
spazio».
Una citazione che me ne ricorda un’altra, del monaco russo Silvano
del monte Athos, rimasto celebre per quanto il Signore gli avrebbe fatto
intuire: «Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare», un invito a
custodire la speranza e la consapevolezza della misericordia di Dio anche in
mezzo al peccato, nei drammi della storia o nei tormenti delle prove.