domenica 7 dicembre 2014

Natale Inquieto | 2° Domenica di Avvento 2014

«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio –. »
Il ricordo di una vecchia intervista a Pier Paolo Pasolini (vai al minuto 44.45) incrina costantemente l’immagine affettuosa e anche un po’ sentimentale del Dio della consolazione. 



Pasolini è categorico: «Escludo totalmente la parola consolazione. Per me il Vangelo è una grandissima opera intellettuale, una grandissima opera di pensiero, che non consola, che riempe, che integra, che rigenera…non so’ come dire…che mette in moto i propri pensieri. Ma la consolazione, proprio …che farsene della consolazione …la consolazione è una parola come speranza». È vero. Se la consolazione resta una parola meglio risparmiarsela. Soltanto quando la consolazione diventa presenza acquista efficacia. Consolare, difatti - mi diceva qualcuno - è colmare una solitudine. Senza l’incontro con Cristo l’apprezzamento per Gesù resta confinato in una dimensione irrimediabilmente umana e terrestre. Gesù si trasforma nel rivoluzionario, è il proletario, l’incompreso, il maestro, l’avatar poliforme di tutte le aspirazioni  degli uomini. La sua fascinazione, per quanto pervasiva, se non entra nella carne non acquista efficacia. È una tentazione che si ripete anche tra chi si professa credente. Ma la posta in gioco non è soltanto la superficialità della propria fede, ma tutto lo spessore della nostra relazione con Cristo. Senza una relazione salvifica il nostro cristianesimo si riduce a sentimento o a corrente di pensiero.
A chi intende mettere in discussione o approfondire questa relazione le letture della seconda Domenica di Avvento propongono la parola “deserto”. «Nel deserto preparate la via al Signore» dice Isaia e gli fa eco il Vangelo di Marco: «Voce di uno che grida nel deserto. Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri».

Nell’immagine del deserto è facile leggere l’inquietudine di chi si ritira in solitudine, lontano dai fastidi, ma anche dalle piccole soddisfazioni di ogni giorno. Anche Gesù lo ha sperimentato, perché all’inizio del suo ministero, ci dicono i Vangeli, fu spinto dallo Spirito nel deserto per quaranta giorni. È nel deserto che il popolo impara a conoscere Dio. Nel deserto, infatti, riconosciamo chi siamo.
Per gli uomini la solitudine si trasforma in una compagnia non addomesticabile. Ma cantucci di deserto possono schiudersi dietro l’angolo, perfino nei luoghi più quotidiani. È nel deserto chi vive la solitudine e lì sta in silenzio, magari disteso sul letto con gli occhi puntati sul soffitto, o seduto alla scrivania o sul divano, con gli occhi puntati attraverso la finestra in una distanza indefinita. Anche la vecchiaia è un continente largamente desertico. Ricordo il nonno, quando, già affaticato per la malattia, si inquietava sul letto perché tornava con la memoria alle incongruenze della propria esistenza. Anche la metropolitana può trasformarsi in spazio desertico. Gli occhi sono rivolti ai finestrini, ma davanti al buio indistinto delle galleria compaiono, agli occhi interiori, uomini e donne, situazioni, preoccupazioni che incoscientemente fanno aggrottare le ciglia o lasciano il volto inerte, abbandonato in una resa incondizionata. Soltanto nella solitudine è possibile, come scrive Agostino – “tenere l’orecchio sul cuore”.
In questi spazi desertici, attraverso la  potenza inafferrabile della memoria, tornano a galla i nostri peccati, gli errori e i dolori che agitano il nostro sonno e dominano il nostro umore. Ma qui fa capolino anche il Signore. Perfino Pasolini descrive una simile esperienza, attraverso segnali non decodificati che la memoria ricuce sotto il profilo di Cristo:

(Quel giorno il Suo angelo fu un serio,
tranquillo contadino che MI VIDE,
altra volta fu un rapido uragano
che mi trattenne in camera, LONTANO...
E fu, ancora, la modesta effige
d'un Cristo che pendeva da uno spago
sul petto che sfioravo con la mano.)

Pier Paolo Pasolini, Un Cristo, da L’usignolo della Chiesa Cattolica, 1947.

Nella solitudine, più o meno meditativa – la vive anche l’uomo comune, nelle attese al semaforo o nei corridoi d’ospedale, nello spazio domestico sovraccarico di richiami e ricordi – tornano a galla, come chiazze d’olio nell’acqua, le ferite dei nostri errori. A volte affiorano dal profondo ed episodi lontani nel tempo hanno ancora il potere di tenerci in scacco. Agostino ne racconta parecchi. A cominciare dalla famosa storia delle pere.
«In piena notte, dopo aver protratto i nostri giochi sulle piazze, come usavamo fare pestiferamente, ce ne andammo, giovinetti depravatissimi quali eravamo, a scuotere la pianta, di cui poi asportammo i frutti. Venimmo via con un carico ingente e non già per mangiarne noi stessi, ma per gettarli addirittura ai porci. Se alcuno ne gustammo, fu soltanto per il gusto dell'ingiusto. Così è fatto il mio cuore, o Dio, così è fatto il mio cuore, di cui hai avuto misericordia mentre era nel fondo dell'abisso» (Libro 2, 4.9). Accanto alle bravate di quella combriccola di malandrini nelle Confessioni tornano a galla, scanditi dagli anni, altri tormentosi ricordi. Mutano interessi e stili di vita, ma Agostino attraversa ancora il deserto dell’inquietudine in un lento, ma graduale avvicinamento alla fede. Dio è paziente e sa attendere il cammino del peccatore. La sua grazia agisce in silenzio, discretamente, con i suoi tempi. Per Lui, infatti, come recita la lettera di Pietro, «un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi».



«Io soprattutto mi stupivo – scriveva ancora Agostino -,  allorché con uno sforzo rievocavo il lungo tempo passato dal momento in cui, diciannovenne, avevo cominciato a infervorarmi nella ricerca della sapienza, progettando di abbandonare, appena l'avessi scoperta, tutte le speranze fatue e i fallaci furori delle vane passioni. Ed eccomi ormai trentenne, vacillante ancora nella medesima mota, avido di godere del presente fugace e dispersivo, mentre mi andavo dicendo: “Domani troverò. Ecco che il vero mi si manifesterà chiaramente, e l'afferrerò”» (Libro 6,11. 18).
Il peso dei nostri peccati sembra quasi schiacciarci. E paradossalmente facciamo fatica ad uscirne, anzi quasi ce ne dispiace. La nostra volontà è incrinata, torna sui suoi passi. Intravede la luce, ma la avverte fuori portata:

Tu non vuoi canto, ma solo fedeltà!
Tu pretendi il digiuni, e io lo temo,
Tu pretendi l’oblio e io non tremo
Che di ricordi. Ecco perché la luce
Tua, ch’è in me, a Te non mi conduce
(P. P. Pasolini, da La religione del mio tempo,  1961)

Pasolini ha sperimentato il dramma di questa tensione irrisolta. Lo racconta chiaramente in una lettera: «io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio” (Lettera a don Giovanni Rossi, 27 dicembre 1964, da F. Castelli, Volti di Gesù nella letteratura moderna, vol. III, Cinisello Balsamo 1995, p.618).

I nostri giorni sono forse avari di personaggi dalla grandezza inquieta di Pasolini? La musica conosce simili attitudini. Tra i più noti, da decenni affida alle note la propria inquietudine con amare e assortite considerazioni Mark Oliver Everett, il leader degli EELS, una band che gode di fama planetaria. L’ultimo album è esplicitamente attraversato fin dal titolo (The Cautionary Tales of Mark Oliver Everett, 2014) dalla vena introspettiva di Everett. Il singolo Mistakes of my youth è accompagnata da un video molto bello: una discesa (notare la ‘discesa’ con bici del protagonista nel quartiere degradato) nella solitudine inquieta dell’adolescenza. Non manca quasi nulla – furti di pere a parte - nel repertorio del giovane teppistello. La giovinezza dei protagonisti sembra proiettarne gli errori nel mondo degradato degli adulti. Ma il videoclip si chiude con una faticosa scalata, una risalita solitaria verso qualcosa di diverso, ma ancora indefinito. La traduzione stavolta era già pronta. L’ho recuperata qui.

In the waning days ahead
I gotta look back down the road
I know that it’s not too late
All the stupid things I’ve said
And people I’ve hurt in my time
I hope it’s not my fate

To keep defeating my own self
And keep repeating yesterday
I can’t keep defeating myself
I can’t keep repeating the mistakes of my youth

In the dark of night I might
Be able to make myself think
That I’m still a younger man
But when the light of day shines down
There’s no way to get around it
I’m not the younger man

I keep defeating my own self
And keep repeating yesterday
I can’t keep defeating myself
I can’t keep repeating the mistakes of my youth

The choice is mine for making
A better road ahead
The road that I’ve been taking
Headed for a dead-end
But it’s not too late to turn around

In the final moments I
Hope that I know that I tried
To do the best I could

To stop defeating my own self
And stop repeating yesterday
I can’t keep defeating myself
I can’t keep repeating the mistakes of my youth
Nei giorni di declino che mi aspettano
Devo ripensare alla strada che ho fatto
So che non è troppo tardi
Tutte le cose stupide che ho detto
E le persone che ho ferito nella mia vita
Spero che non sia il mio destino

Continuare a mettermi i bastoni tra le ruote
E continuare a ripetere il passato
Non posso continuare a mettermi i bastoni tra le ruote
Non posso continuare a ripetere i miei errori di gioventù

Nell’oscurità della notte potrei
Essere capace di convincermi
Che sono ancora un giovane
Ma quando la luce del giorno si affievolisce
Non c’è modo di girarci attorno
Non sono più quel giovane

Continuo a mettermi i bastoni tra le ruote
E continuo a ripetere il passato
Non posso continuare a mettermi i bastoni tra le ruote
Non posso continuare a ripetere i miei errori di gioventù

È mia la scelta di mettermi
Una strada migliore davanti
La strada che stavo prendendo
Portava ad un vicolo cieco
Ma non è troppo tardi per tornare indietro

Negli ultimi istanti
Spero che potrò diredi aver tentato
Di fare il meglio che potevo

Per non mettermi più i bastoni tra le ruote
E non ripetere più il passato
Non posso continuare a mettermi i bastoni tra le ruote
Non posso continuare a ripetere i miei errori di gioventù

L’esperienza del deserto fa venire sete. 
Il Lucernario delle domeniche di Avvento, celebrato nel buio della chiesa, lo esprime concretamente con grande suggestione: «Accendi la mia lampada, Signore. Dio mio illumina le mie tenebre». Nell’arsura del deserto Giovanni offre la consolazione dell’acqua: «vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati».
La consolazione attende la Presenza. Dopo anni di inquietudine Agostino l’ha incontrata in Gesù Cristo: «A ragione è salda la mia speranza in lui che guarirai tutte le mie debolezze grazie a Chi siede alla tua destra e intercede per noi presso di te. Senza di lui dispererei. Le mie debolezze sono molte e grandi, sono molte, e grandi. Ma più abbondante è la tua medicina. Avremmo potuto credere che il tuo Verbo fosse lontano dal contatto dell'uomo, e disperare di noi, se non si fosse fatto carne e non avesse abitato fra noi» (Libro 10, 43.69).
E questa è la certezza che può cambiare la vita e ci ripresenta l’Avvento.



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