Mi ha chiamato Fabio per dirmi che era triste perchè è morto il Papa. Mi diceva: «il Papa era contento quando mi aveva visto». A dire il vero non so se Francesco l'abbia proprio visto, ma di certo noi abbiamo visto lui, insieme a tante altre persone, giovani e pellegrini. Però quella frase di Fabio, che è un ragazzo down con cui abbiamo condiviso tante esperienze, come la Giornate mondiali della Gioventù, mi sembra un bel modo di ricordare il Papa. Lui, se n'è andato in punta di piedi, il giorno di Pasquetta, quando tutti erano distratti per la gita fuori porta o una dormita più lunga del solito. Ora tornano in mente gesti, parole, anche contestazioni e polemiche. Francesco non era il papa della santità eroica di Giovanni Paolo II, tantomeno un papa professore e teologo come Benedetto XVI. Un papa "uno di noi", un "parroco del mondo", capace di mille delicate attenzioni e scelte decisioniste, con i suoi pregi e i suoi difetti, in grado di farsi intendere da tutti, ma proprio tutti, di passare dalla cattedra di Pietro all'apparizione televisiva al festival di Sanremo. Qualche giorno prima dell'elezione un mio amico argentino lo escludeva dai papabili: «E questo chi è - gli domandavo scorrendo le foto dei cardinali sul giornale -. Lo conosci?». «Ah, ma lui no, prende il bus, va al mercato, è uno semplice..». In piazza san Pietro il giorno della Messa di inizio pontificato, nella solennità di san Giuseppe, uscirono subito alcuni passaggi chiave del suo futuro magistero come la custodia del Creato e un "potere" che si fa servizio. Però a me rimase impresso quando parlò della "tenerezza": «non abbiate paura della tenerezza». Dall'Omelia di inizio pontificato (Piazza San Pietro, 19 marzo 2013)
Papa Francesco è stato il Papa delle periferie. Nei suoi viaggi ha privilegiato paesi in cui i cristiani sono minoranza, talvolta davvero piccola. In Mongolia, dove i cattolici sono poco più di 1000 in tutto il paese, aveva salutato una donna, che una decina di anni prima aveva riportato a casa una statua di legno della Madonna che aveva trovato in una discarica: “questa bella signora è voluta venire ad abitare nella mia tenda” e il papa era andato a visitarla. Ogni giorno, fin quasi all'ultimo, ha chiamato al telefono la parrocchia di Gaza. A Lesbo in visita ai profughi lì ospitati, raccolse i disegni dei bambini profughi e lì mostrò al mondo di ritorno sull'aereo. Nel suo primo viaggio a Lampedusa, all'indomani di una - l'ennesima - strage di migranti nel Mediterraneo, pronunciò espressioni poi diventate proverbiali, come la "globalizzazione dell'indifferenza".
Dall'Omelia della Santa Messa nel campo sportivo "Arena" (Lampedusa, 8 luglio 2013)Palma, un'anziana signora, non parlava da anni con la sorella. Mi aveva raccontato di vecchie ruggini e poi di parole e gesti mai digeriti. Ma una domenica mattina aveva sentito una parola del Papa pronunciata all'Angelus che invitava al perdono, a riconciliarsi in famiglia e aveva alzato la cornetta. Qualcosa di inatteso era accaduto. A me pare una grazia grande quanto un motu proprio, forse più grande della nomina del prefetto di un dicastero vaticano. Ma d'altra parte, come il Papa ricordava in uno dei suoi documenti più belli, "Gaudete et exsultate" la santità passa dai "piccoli particolari dell'amore". Cosa avesse in testa il Papa quando parlava di Chiesa lo espresse bene a Firenze, in occasione del Convegno Ecclesiale della Chiesa italiana, dove tornava fuori un'altra sua espressione rimasta emblematica: quella di una Chiesa in uscita, «accidentata, ferita e sporca». Dal discorso pronunciato in occasione del V Convegno Ecclesiale della Cei (Firenze, Santa Maria del Fiore, 10 novembre 2015)
Non è possibile dimenticare, in tempi più recenti, il discorso in occasione del momento di preghiera per la pandemia e ancora di più l'immagine iconica di un Papa solo nella piazza deserta e bagnata dalla pioggia, nel silenzio di minuti che hanno parlato all'umanità intera. La pandemia, purtroppo, ha segnato anche un crescere delle tensioni interne alla Chiesa e l'immagine della barca nella tempesta, già ricordata da un papa Benedetto quasi al termine del suo pontificato, tornava ad esprimere le svolte faticose della Chiesa nel tempo.
Un disegno preparato per la Via Crucis col Papa realizzata dai bambini nel 2021
Dal discorso pronunciato in occasione del momento straordinario di Preghiera in tempo di epidemia (Piazza San Pietro, 27 marzo 2020)
Per chi ha vissuto l'esperienza delle Giornate mondiali della Gioventù l'incontro con Papa Francesco aveva il sapore del dialogo con uno "di famiglia", un "motivatore" sempre pronto a comprendere, capace di un linguaggio semplice e chiaro. A Rio, la sua prima Gmg, diceva che «la gioventù è la finestra attraverso la quale il futuro entra nel mondo .. la nostra generazione si rivelerà all’altezza della promessa che c’è in ogni giovane quando saprà offrirgli spazio» (Papa Francesco, Cerimonia di benvenuto a Rio de Janeiro, 22 luglio). Il Papa c'ha provato, specialmente con il Sinodo dei giovani (2018) da cui è uscito uno dei suoi testi più belli, l'esortazione "Christus vivit" (2019).
Dal discorso pronunciato in occasione della Veglia al Parque Tejo durante la GMG di Lisbona (5 agosto 2023)
Un passaggio, questo della Veglia della Gmg di Lisbona, in cui tornava un tema caro al pontificato di papa Francesco, quello della gioia. Un aspetto decisivo, che testimoniava il suo sorriso e che trova radice nella "gioia del Vangelo" che ha raccontato e invitato tutti a comunicare nel suo documento più bello e importante: "Evangelii Gaudium". C'è però un passaggio, che si può spulciare nell'enciclica Fratelli tutti, in cui il papa racconta qualcosa di sè, che mi pare bello e capace di fare sintesi di molti suoi gesti e parole. Qui cita una canzone, un brano musicale di cui rammenta il disco e la data di registrazione in Argentina: «Vinicius De Moraes, Samba della benedizione (Samba da Bênção), nel disco Um encontro no Au bon Gourmet, Rio de Janeiro (2 agosto 1962)». Un brano che gli deve essere stato caro da cui citava un verso e avviava una riflessione molto personale:
«La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita». Tante volte ho invitato a far crescere una cultura dell’incontro, che vada oltre le dialettiche che mettono l’uno contro l’altro. (...) Da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è superfluo. Ciò implica includere le periferie. Chi vive in esse ha un altro punto di vista, vede aspetti della realtà che non si riconoscono dai centri di potere dove si prendono le decisioni più determinanti».
Altri due sguardi sul mondo. Due sguardi che suggeriscono “strategie”
alternative che consegniamo all’anno nuovo. Due sguardi nostrani, che però
dirazzano dal mainstream e perlustrano la realtà e la creazione artistica come
occasione meditativa, a partire dalla propria esperienza personale o dai
movimenti della storia.
Un fermento che emerge qua e là anche nel panorama
giovanile, un’attesa di profondità che suona fresca, priva di pregiudizi –
certo, senza nemmeno troppi punti di riferimento, ma comunque aperta ad “altro”.
E insomma, il primo sguardo lo trovo in una giovane
cantautrice che si chiama Gaia Morelli. E in particolare in un disco dal titolo
accattivante: “La natura delle cose” (Dischi sotterranei, 2024).
Le “cose” di cui parla Gaia sono quelle
più ordinarie, un po’ come prova a restituire il videoclip che raccoglie, come
in un cortometraggio di tre capitoli, altrettanti brani dell’album. Il primo, “Siamo
stonati”, descrive momenti di vita di Gaia, con un approccio tra il
fenomenologico e il meditativo che diventa occasione di una riflessione sulla propria
storia personale, l’occasione in cui misurare la fatica di cogliere le
dinamiche profonde che definiscono la nostra “forma”: «Siamo stonati fra tanti / Chi lo sa
fra quanto tempo riusciremo a diventare grandi».
Il secondo capitolo, “Lo Spazio”, descrive una sorta di
pellegrinaggio dal sapore esistenziale, come recitano le parole della prima
strofa: «Con
il cambio di stagione / io sono andata, non ritorno / Fa molto caldo/Te ne sei accorta / Sai che puoi piangere / Ho
ancora i miei drammi». Così Gaia dalla periferia urbana attraversa la campagna,
scruta attorno a sè fino a uno “spazio” accogliente in cui «vivo
per un motivo». Una bella immagine per provare a descrivere una “via”
contemplativa, un’alternativa al disincanto e ai drammi dell’ordinario.
Nel terzo capitolo, “Fine”, il video è tutto concentrato su
di lei,immersa nel buio, colta da un
lungo e lento allargarsi del campo di ripresa. Il testo esprime l’indole
meditativa dell’album: «È tanto veloce che le cose cambiano / Lo riconosco il
tempo sano / Analizzare piano piano sottovoce / La natura delle cose / Fino a
sparire un po'/».
Ma cos’è la natura delle cose? In un’intervista Gaia la
spiega così: «La Natura delle cose è quasi l’essenza delle cose che viviamo e
facciamo, in qualche modo il trovare una qualche forma di pace».
Un approccio molto femminile, come femminile è quel
passaggio che accompagna la liturgia dell’inizio dell’anno, dedicata alla
solennità di Maria Santissima Madre di Dio, quando l’evangelista Luca dice – e lo
ripete due volte: Luca 2, 19 e 2, 51 – che Maria «custodiva tutte queste cose,
meditandole nel suo cuore». E mi piace che non dica che le capiva, ma che le
meditava, custodendo il mistero delle cose, provando a cucire insieme, nei
tempi e nei modi che la vita e la grazia concede, l’agire dell’uomo con quello
di Dio, le cose e il loro senso.
L’altro sguardo è quello di Vasco Brondi, che circa un anno
fa usciva con “Un segno di vita” (Carosello Records 2024). Il brano è frutto di un artista più maturo,
che qualcuno ricorda sotto l’etichetta di “Luci della centrale elettrica”, ma
che ora propone un cantautorato italianissimo, musicalmente forse un po’ già sentito ma molto raffinato, dove
le parole suonano in certi passaggi come poesia.
Il videoclip del brano che dà anche il titolo all'album, “Un segno di vita”, accompagna con delicatezza e la
forza di immagini evocative le parole del testo, descrivendo il cammino e le
scoperte di un ragazzino in mezzo alla natura, ma anche tra i libri, le carte
geografiche e di fronte alla suggestiva e un po’ enigmatica complessità degli
affreschi di Ercole de’ Roberti e Francesco del Cossa con il ciclo dei Mesi in
palazzo Schifanoia a Ferrara.
In “Un segno di vita” – quasi «una preghiera rumorosa», il
testo si arricchisce di molteplici riferimenti, alcuni dal sapore biblico, «distruggevano
e ricostruivano e ancora distruggevano e ricostruivano e ancora distruggevano e
ricostruivano e ricostruivano e ricostruivano», che suona quasi come un passo del
Qoelet (3,3) quando rammenta che «c’è
un
tempo per demolire e un tempo per costruire». Ma torna in mente anche il
profeta Geremia (1,10), a cui il Signore dà l’autorità «per sradicare e
demolire, / per distruggere e abbattere,/ per edificare e piantare», alludendo
al giudizio ma anche alla misericordia, a interpretare alla luce di Dio i
traumi della storia.
Ancora più direttamente evangelico il passaggio in cui Brondi
canta, quasi fosse una preghiera: «Ho ancora tanti errori da commettere / ti
prego lasciameli fare / Adesso lasciati guardare / nella luce artificiale o
nella luce naturale / che bel rumore fanno le cose / quando stanno per finire /
Resta con noi che si fa sera /resta con noi è quasi primavera». Parole che
ricordano il brano di Emmaus, quando i discepoli invitano lo sconosciuto
pellegrino, in realtà Gesù risorto, a fermarsi con loro a cena: «Quando furono
vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più
lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già
volge al declino”» (Lc 24,28-29). Un brano che suona in sintonia con la canzone
di Brondi, in cui accanto alla tragedia e alla delusione si aprono spazi di
luce e stupita speranza.
Per chi volesse approfondire c'è online anche un bel dialogo tra Vasco Brondi con il monaco Guidalberto Bormolini.
Uno sguardo contemplativo, se lo mettiamo accanto a quello di Gaia Morelli, forse più maschile, comunque un
invito a cogliere nel dramma del reale i segni di speranza. Un po’ come invita
a fare il Papa in questo anno santo 2025, un tempo in cui riconoscere i “segni
dei tempi” spesso drammatici del nostro tempo (guerre, migrazioni, squilibri
sociali, cambiamenti climatici…), e «porre attenzione al tanto bene che è
presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal
male e dalla violenza. Ma i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del
cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati
in segni di speranza».
In effetti il brano di Brondi ha il sapore di una meditazione sapienziale
sulla storia in cui accanto al dramma è possibile registrare inattesi “segni di
vita”: «Bombardano bombardano / e tutti guardano / Non arrivano le provviste / Non
arrivano le voci e le promesse/ Solo luci di stelle fisse/ che parlano di pace
/ e di apocalisse».
«Siamo in un’epoca di transizione – ha affermato l’autore in un’intervista
- , cioè, tutte le epoche poi possono essere considerate tempi bui o non
esserlo. Però la cosa che sempre possiamo fare, e qui mi viene da citare
Calvino che dice una cosa importante in merito, è cercare e saper riconoscere
chi e che cosa in mezzo all’inferno non è inferno e farlo durare e dargli
spazio».
Una citazione che me ne ricorda un’altra, del monaco russo Silvano
del monte Athos, rimasto celebre per quanto il Signore gli avrebbe fatto
intuire: «Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare», un invito a
custodire la speranza e la consapevolezza della misericordia di Dio anche in
mezzo al peccato, nei drammi della storia o nei tormenti delle prove.
Due sguardi sul mondo. Il primo arriva da Anja Plaschg, meglio nota comeSoap& Skin, cantante austriaca che in una manciata di album ha dato voce alle inquietudine e al disincanto del mondo contemporaneo, anzi, in particolare dell’Europa continentale, di unaMitteleuropa avvezza a confrontarsi con l’angoscia, la morte e un desiderio di trascendenza che ha smarrito il Cielo. Nelle melodie oscure che suonano ora come una preghiera o una marcia funebre, la sua voce tagliente arriva fin nel midollo.
Il suo ultimo album è interamente di cover, compreso il singolo “Girl loves me”, un brano di David Bowie estratto da Blackstar, l’ultimo, estremo disco – quasi un testamento- del duca bianco. Difficile orientarsi nel testo, uno slang di parole incomprensibili da cui però, l’autrice ha preso spunto in un verso «I'm sitting in the chestnut tree» (sono seduto nel castagno) per dare forma alla narrazione del video. Qualcuno ci ha letto un riferimento a Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, dove uno dei personaggi vive i suoi ultimi giorni, afflitto da demenza legato a un albero di castagno.
Nel videoSoap& Skin appare dentro il tronco di un albero, poi legata a un gigantesco camion come un animale condotto al macello. La violazione della natura, sfracellata dalle macchine, ridotta a oggetto di consumo in un sistema produttivo anonimo e inarrestabile, rimanda senza mezzi termini alla crisi del rapporto uomo e natura. Presentando il video Soap & Skin ha commentato:
«trapped in the labyrinth of furrows in the tree bark we are puny ants, sitting in a chestnut tree living in a butchery».
Intrappolati nel labirinto di solchi nella corteccia degli alberi siamo gracile formiche, sedute su un castagno, vive dentro una macelleria.
Eppure siamo soltanto gracili formiche?
C’è una vita nascosta nell’albero e un’opposizione irriducibile oltre le catene che conducono lontano Anja nel labirinto di una tetra miniera. Parabola dello sfacelo ecologico, ma anche immagine della guerra che in un vorticoso crescendo mangia, una dopo l’altra, le sue vittime.
Ci siamo forse rassegnati a pensare che il sistema contempli anche la possibilità della violenza? Produciamo e vendiamo senza sosta macchine per uccidere, oltrepassiamo, un giorno dopo l’altro, i paletti dalla convivenza civile, faticosamente piantati in decenni di non belligeranza: carri armati, missili ipersonici, bombe a grappolo, mine antiuomo e testate nucleari sono ulteriori ingranaggi che consumano l’umano. Così il video si chiude negli antri di una falegnameria che assomiglia più ad una grande macelleria e che la memoria recente lega alle tetre immagini dell'Azovstal di Mariupol, martellata da una guerra di annientamento.
Nell'acciaieria di Mariupol (Dmytro Kozatsky)
Il secondo sguardo arriva da Beirut, dal cuore di una città e di un paese scenario di una guerra violenta e sprezzante. C’è un gruppo libanese - i Postcards - che a dire il vero suona molto occidentale. L’ultimo video che hanno realizzato, nell'aprile 2023, parla di tenerezza.
«Isn’t it tenderness we all seek?»
Non è la tenerezza quello che tutti cerchiamo?
Ce lo domandano le parole di questo brano che il gruppo dedica a quanti non si sentono visti da nessuno.
«I am the tiny seed you sow, cover me with soil»
Sono il piccolo seme che semini, coprimi di terra
Nella tensione tra violenza e tenerezza, distruzione sistemica e il bisogno di cura si intrecciano tante inquietudini contemporanee. Sì, tutti cerchiamo tenerezza, ma abbiamo bisogno di custodirne le radici. Flannery O'Connor, decenni fa ammoniva spietatamente che la tenerezza «staccata dalla persona di Cristo, è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas».
Quale sintesi potrà consegnare il Natale a un mondo che lo separa dalla nascita di Cristo?
Donne soldate israeliane si fanno un selfie a Gaza. Feb. 19, 2024. (AP Photo/Tsafrir Abayov)
«What I was made for?» Per cosa sono stata fatta? Lo domanda Billie Eilish, che presta le parole a Barbie, catapultata nella complessità del mondo reale da quello chiccherelloso e artificiale delle bambole. Però la questione è seria e in fondo entra come una lama nel burro di scenari contemporanei vuoti di proposte e risposte decisive. O forse, ancora di più, inclini a silenziare le domande decisive.
Per cosa sono stata/o creato?
In viaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona l'interrogativo piove su chi, tra i 16 e i 20 anni, cerca di dipanare la matassa che ingarbuglia la mente, il corpo e il cuore.
Di queste giornate si dice molto, ma non è facile tradurre in parole quel che nelle parole non ci sta, perché eccedente, nei numeri, come nelle emozioni, negli incontri, come nella bellezza che ti si ribalta addosso ad ogni angolo di strada, dentro i volti, le mani, le voci che ti guardano, ti cercano, ti chiamano.
Per mettere ordine nei pensieri che ruotano attorno a quei giorni mi vengono in mente tre parole.
La prima è ascolto. Siamo abituati, specialmente in ambito ecclesiale, a ridirsi che occorre "ascoltare i giovani": cosa sacrosanta, più invocata che praticata.
Però nei giorni portoghesi uno si accorge quanto i giovani sappiano ascoltare. Ascoltano le parole del Papa, quelle dei loro coetanei, dei don che li accompagnano. Hanno fiuto per quel che vale la pena ascoltare. Si dirà che non tutti erano consapevoli e attenti, che poi non li ritrovi sempre sulle panche in parrocchia; che c'è da tener conto della logica dei grandi numeri. Però l'esperienza insegna che una parola o un gesto possono restare agganciati anche alle antenne più distratte o refrattarie. A chi predica o accompagna, questa disponibilità all'ascolto che poi è preludio ad aperture del cuore, a racconti di sè che non si sottraggono alla commozione, può anche suggerire, ogni tanto, di tacere.
La seconda parola è identità. In un senso però molto diverso da quello in cui si pone, generalmente, nel mainstream del pensiero, la questione identitaria. Un'identità cioè, che non risponde primariamente alla domanda: «chi sono?» Ma ad un altro interrogativo che mi sembra più "drammatico" per un giovane: ma io, «per chi sono?» E cioè: la mia vita conta davvero per qualcuno? Qualcuno si accorge che esisto? Mi merito di essere amato così incondizionatamente da Dio? Conto davvero qualcosa per i miei genitori, i miei prof, gli amici, o sono soltanto capace di sbagliare, deludere, non riuscire a raggiungere i risultati che il mondo si attende da me (o quel che penso si attenda il mondo da me?).
Le ansie che si agitano nel cuore di tanti ragazzi fanno pensare. «A volte - commentava con acutezza un giovane pellegrino - abbiamo più paura della luce che è in noi che dell'ombra». Allo stesso tempo ti accorgi che la vita fiorisce quando qualcuno ti dice che vali, che «non sei un numero», ma una creatura unica e irripetibile, voluta e amata da Dio. È in fondo l'identità che esprimono bandiere, maglie e spillette della Gmg; che non raccontano un'identità fatta per distinguere o prevalere, contrapporsi o difendersi, ma ricchezza da condividere, con cui andare incontro all'altro e cantare la bellezza che ci si porta dietro.
Per raggiungere il centro della propria identità, il pellegrinaggio a Lisbona racconta, una volta di più, la forza rivoluzionaria della tenerezza, del cuore trasparente e diretto di quelli che chiamiamo disabili, che pure custodiscono il segreto di un'abilità che i grandi registi del consumo mondiale pagherebbero oro per acquisire, quella di parlare dritto al cuore, di smuovere ogni resistenza o presunzione, di smascherare, come spiegava un altro pellegrino - «i filtri che complicano le nostre relazioni». Il carisma dei "ragazzi", dei più fragili, dei "piccoli", oggi più che mai rivela una forza capace di curare ferite e fragilità che gli specialisti sanno spesso soltanto certificare.
La terza parola è croce. Col passare dei giorni il pellegrinaggio, con le sue fatiche e i suoi intoppi, con la preghiera e la confidenza, permette di comprendere che nonostante i richiami di divertimento o distrazione mondani non è possibile scansare la realtà della croce. Dentro un cuore giovane non c'è soltanto e primariamente una spensierata allegria. Nelle «montagne russe» delle emozioni vissute a Lisbona ci siamo confrontati con la complessità, ma anche con qualcosa di più grande. «Credo di non aver mai conosciuto la vita come in questi giorni», affermava una ragazza durante una condivisione. «La grazia - commentavano altri - non passa solo attraverso i momenti di gioia, ma anche di pena e di dolore», e altre voci hanno aggiunto: «Ho imparato l'arte di essere fragili e l'arte di essere forti». D'altronde «quando sono debole - ricordava San Paolo - è allora che sono forte». È la scoperta tracciata da un amore più grande, che intreccia ogni cosa, ti cerca, ti sostiene, accompagna in silenzio, perdona, fa entrare nello spessore della vita, attende risposta.
Sono le acquisizioni fondamentali della vita di fede, che ti arrivano addosso come una ventata improvvisa e ti fanno intuire per cosa sei stata/o creato. Nelle crisi che non controlli o negli imprevisti del viaggio, nel malessere che blocca chi hai accanto e chiede di rimodulare nei ritmi e nei modi il tuo viaggio, nell'orizzonte che si apre oltre la linea del mare, nel sole che si colora di rosso al tramonto, nel silenzio che nella notte riempie la distesa di giovani in preghiera lungo le rive del Tago o nelle apparizioni improvvise della grazia.
Come nei tre pavoni planati in mezzo alle confidenze dei giovani, antichi richiami di bellezza ed eternità per chi è pellegrino in questo mondo.
La Solennità di Cristo Re, chiusura dell’anno liturgico, ci
ripresenta il brano della crocifissione di Gesù con la viva e paradossale
tensione tra regalità e umiliazione, gloria ed abbassamento. Quel crocifisso è
il Signore dell’Universo. Esplicitato per intero il titolo di questa solennità —
Solennità di nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo — risuona oggi ultra
cattolico. Eppure tutto chiede di tornare all’ora della croce.
Il brano di Luca per la solennità di quest’anno suona fin
troppo asciutto a chi è abituato agli effetti speciali e ai grandi sentimenti.
C’è spazio soltanto per le parole e le reazioni dei presenti: ci sono i capi («Ha
salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto»), i
soldati («Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso»), uno dei ladroni
crocifissi con lui («Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!»). Uno dopo l’altro,
contestando e prendendo in giro elencano, in una sorta di cristologia negativa,
i titoli di Gesù: l’“eletto”, cioè l’unto, il “Cristo di Dio”; il “Re dei
Giudei” (e Gesù d'altra parte discende dalla casa del re Davide); il salvatore a cui si
grida “salva te stesso e noi”. Poi c’è l’altro, il ladrone che chiama il
crocifisso per nome: «Gesù» ed è l’unico ad aver capito, l’unico ad accogliere la
misericordia che quel crocifisso innocente è pronto a donare a tutti.
Perché, su uno che muore così, possiamo scommetterci la vita? Perché
sul crocifisso si costruiscono impegni di vita, nel suo nome si spendono ore di
volontariato e di proposte educative? Perchè, per amore di quel crocifisso, "perdere tempo" nell’orazione, percorrere le vie della verginità, arrivare a donare
al vita nel martirio?
Quel crocifisso ci sta sempre sotto gli occhi. Dice che
nella pena, nell’umiliazione e nella sofferenza si può leggere altro. C’è un
mistero regale che parla di accoglienza, comprensione, fraternità profonda. Quel
crocifisso si può chiamare per nome. Ha un nome come il mio. E d’altronde non
può essere lontano da me e dal mio sentire chi muore così sulla croce. Anche se nel suo silenzio e nella sua innocenza, le
ferite, i chiodi, le umiliazioni non sono solo sue, sono le nostre in lui e sopra di
lui. Quando lo comprendiamo entriamo nello spazio della
misericordia.
Non so se sia il peso dei nostri peccati, o quello dei nostri
dolori, non so se siano le nostre lacrime oppure il grido e la bestemmia di chi
sfida il Cielo nell’ora della prova. Non so se siano gli strazi delle guerre e
le violenze degli uomini, le tragiche "leggerezze" dei bulli o i morti innocenti.
Però c’è un mistero, un orizzonte più largo e spesso sorprendente che si
affaccia alla vita quando l’ora della prova, quella della croce, si apre alla
misericordia.
Oltre le distrazioni del mondo contemporaneo e le
ubriacature del consumo, al di là delle apparenza di chi passa la vita a “flexare”
con macchinoni tirati a lucido, quattrini facili e donne oggetto, c’è un
universo di fragilità e paure, di solitudini e cuori spenti.
In attesa della metropolitana, con gli occhi persi nell’oscurità
del tunnel, sul crinale tra la ripartenza e lo spazio invalicabile dei binari e
del pericolo di morte, addormentati o ubriachi sui vagoni, i personaggi del
video musicale che accompagna un brano di Max Richter, intitolato “Mercy”, “Misericordia”
compongono poeticamente suggestioni metropolitane di “ordinaria” misericordia. «Il
bellissimo film di Yulia Mahr (si legge nel commento al video su YouTube) pone
saldamente la questione della misericordia e della compassione nel nostro mondo
quotidiano».
Aprono e chiudono il video, tutto o quasi girato dentro e
fuori gli ambienti sotterranei della metropolitana, ritagli di cielo con stormi
di colombi in volo e uno sguardo dall’alto che scorre lento sulla città. Sotto
la superficie della metropoli la vita scorre tra marginalità e solitudini e dietro
i volti di passeggeri di ogni età si intrecciano il miracolo della nascita e il
dolore della malattia, il passato e il presente, gli abbracci di chi si ama e
il senso di attesa di chi è in costante viaggio, tra una sosta e l’altra della
giornata e della vita. Tra un volto e l'altro un fiore che sboccia, le onde del mare, l'acqua che scorre. E in questo sotterraneo andirivieni tra i non luoghi
dell’ordinario urbano si aprono esperienze di misericordia. È l’umano
che si ritrova, si riconosce, risuona come una sveglia nella vita e si apre a qualcosa di più grande che lo compie, atteso, cercato ma sempre sorprendente. La
vita tocca qualcos’altro. È lì che intuisci i segreti del Regno, la leva che ribalta
il mondo e lo prepara a una nuova, differente fioritura.
Così capisco meglio il crocifisso che incrocia, con il suo
mistero di innocenza offesa e umiliata, ma anche di profonda fraternità e
compassione, la vita di ogni donna e uomo. A lui, che pende dalla croce in
silenzio davanti a me, posso rivolgermi chiamandolo per nome. Poi, su per le
misteriose vie della grazia e della fede, posso arrivare a comprenderlo Salvatore,
Cristo, Figlio di Dio, posso anche chiamarlo Re e Signore dell’Universo.
Dentro ci sono alcuni punti fermi della sua poetica, ma in una lettera scritta a macchina per lanciare il suo ultimo album sono soprattutto illustrati, con acume e sensibilità poetica, alcuni tratti dolenti del nostro tempo. Weyes Blood, nome d'arte di Natalie Laura Mering, sofisticata cantautrice americana che ha sfornato uno dei più bei dischi degli ultimi anni (Titanic Rising, Sub Pop 2019) abbozza così, tra strategia promozionale e genio artistico, una tagliente riflessione.
«La nostra cultura - scrive - si basa sempre meno sulle persone. Questo genera un nuovo, inedito livello di isolamento. La promessa di poter comprare la nostra via d’uscita da questo vuoto offre poco conforto di fronte alla paura con cui tutti conviviamo: la paura di diventare obsoleti. C’è qualcosa che non va, e anche se la sensazione appare diversa per ogni individuo, è universale».
La preoccupazione per una tecnologia sempre più invasiva e distraente non è nuova per Weyes Blood. L'iper isolamento dovuto alla pandemia ha poi acuito questa sua (e nostra) consapevolezza. Così, nella sua lettera scritta a macchina, sottratta alla facilità del copia e incolla, redatta nel ritmo lento e soppesato di lettere impresse sulla carta una volta per tutte, parla di una tecnologia che distrae l'uomo da sé stesso, spingendolo a cercare "fuori" quanto avrebbe bisogno di trovare dentro di sè. Eppure anche Sant'Agostino diceva qualcosa del genere: Noli foras ire, in te ipsum redi (non uscire fuori di te, ritorna in te stesso). E forse Gesù intendeva qualcosa di ancora più semplice quando raccontava del figliol prodigo che «rientrò in se stesso», o quando parlando ai discepoli li spingeva a «cercare il cibo che rimane» o incontrando la Samaritana la portava all'acqua viva passando dalle sue inconsistenze.
Il video che accompagna il singolo di lancio "It's Not Just Me, It's Everybody" offre uno sguardo distopico, ma neanche troppo, sulla realtà.
Natalie Mering, descritta con quell'estetica fin de siècle che già respira i fumi della catastrofe, danza un grottesco balletto in un vecchio ed elegante teatro disseminato di cadaveri. Sul palco uno scenario di distruzione, una Guernica di morti e rovine in cui balla e canta in veste di marinaio. Una nave che affonda? Un modo per ricordarci che siamo tutti sulla stessa barca? Teatro o realtà? Un piccolo smartphone ballerino le contende la scena e si nutre dei cadaveri. La tecnologia ruba all'uomo il proprio posto sulla scena del mondo, ne divora la vita. Una bomba, nel tempo in cui la minaccia nucleare si riaffaccia prepotentemente, è pronta a schiantarsi sulla scena, sospesa nel vuoto a un passo dal palco.
Il testo del brano è accompagnato da un ritornello che dà nome anche alla canzone: «non sono io, siamo tutti». Un'espressione di ispirazione buddista che serve alla Marling per parlare dell'interconnessione che lega ogni creatura e cantare la comunione nel tempo dell'isolamento: «tutti sanguiniamo allo stesso modo»; per poi invocare, su tutti, misericordia.
Oltre la messinscena straniante e grottesca del video, oltre il tentativo di gettare luce sul «nostro disincanto contemporaneo», nella sua lettera scritta a macchina c'è l'invito a riconoscere nel cuore, cifra dell'umano, con i suo ritmi originari e il suo continuo bussare alle porte delle nostre distratte esistenze, «una guida», «una sorgente di speranza», una luce «che splende in questi tempi oscuri».
Se dunque guardassimo dentro noi stessi, nel nostro cuore, cosa troveremmo?
Vivendo nella scia di cambiamenti troppo grandi siamo diventati tutti estranei perfino a noi stessi Non possiamo farne a meno Non riusciamo a intendere da lontano che ogni onda potrebbe non essere la stessa ma che fa tutto parte di qualcosa di grande
La misericordia è l'unica cura per il nostro essere così soli Mai un tempo è stato più capace di rivelare che le persone si stanno facendo del male Oh, non sono solo io Immagino che siano tutti Sì, sanguiniamo tutti allo stesso modo
Sitting at this partyWondering if anyone knows me Really sees who I am Oh it’s been so long since I felt really known Fragile in the morning Can’t hold on to much of anything With this hole in my hand I can’t pretend that we always keep what we find Yes everybody splits apart sometimes
Living in the wake of overwhelming changes We’ve all become strangers Even to ourselves We just can’t help We can’t see from far away To know that every wave might not be the same But its all apart of one big thing
Oh it’s not just me, it’s not just me It’s not just me, it’s everybody
Mercy is the only Cure for being so lonely Has a time ever been more revealing That the people are hurting Oh it’s not just me I guess it’s everybody Yes we all bleed the same way
C’è una bella espressione in inglese che ci aiuta a leggere l’immagine del Cuore sotto una luce un po’ differente da quella del pensiero comune: learn by heart traduce infatti il nostro “imparare a memoria”. Ora, mentre l’italiano ci richiama l’aridità delle tabelline, o la fatica di snocciolare, uno dietro l’altro, nomi, date o versi difficili, l’inglese ci suggerisce che quel mandare a memoria può avere un valore più profondo, di qualcosa acquisito una volta per tutte, che riecheggia, da qualche parte in noi, come il battito del cuore. Festeggiamo il Cuore di Gesù ma quale cuore abbiamo in testa?
Cuore è una delle parole, insieme a quelle con cui è solito fare rima, forse più abusate. “Al cuor non si comanda”, “con il cuore”, “lo vuole il cuore”, “lo dice il cuore”, potremmo continuare a lungo per notare l’evidente protagonismo del “cuore” in molti aspetti del nostro mondo. Un cuore però piuttosto diminuito, assunto nella sua dimensione meramente affettiva o, meglio, emotiva. Potremmo dire sentimentale, ma suona desueto, oltre al fatto che parlare spesso di sentimenti non significa affatto che li si riesca a distinguere dalle emozioni. Il parlare diffuso del cuore galleggia spesso in superficie, là dove le “ragioni del cuore” assumono la forza dell’imperio, per cui il cuore tiranneggia, si esprime invocando diritti e scambia l’arbitrio per l’amore.
Chi ama, o almeno ci prova, sa che amare non è questione di un attimo. L’amore non è un’emozione, è una scuola. Ci educa, chiede tempo, è gratuito ma non scontato, semplice ma non sempre facile. Allo stesso modo il Sacro Cuore di Gesù non è né roba da suore o deliquio romantico, neppure estenuata sensibilità barocca, per quanto si spieghi bene con la mania degli emblemi in voga a quei tempi. È certo una parte del tutto, non una vivisezione di Cristo.
Però questo cuore, il Cuore di Gesù, quel cuore che l’iconografia ci mostra nel profilo anatomico dell’organo isolato, coronato di spine, ferito, sanguinante e acceso da una fiamma, mi sembra che si spieghi alla luce di una dimensione teologica più originaria ancora dei misteri dolorosi della vicenda di Cristo a cui rimandano quei segni. Che è poi la radice con cui si spiega l’intera opera di redenzione realizzata da Cristo, il Figlio di Dio. È la radice di una disciplina trinitaria d’amore, propria del Dio che è Padre che genera, Figlio amato ed amante nell’obbedienza, Spirito di comunione che stringe il Padre e il Figlio e del loro amore è testimone e dono reciproco.
Ci aiuta il brano del Vangelo proposto per questa solennità, dove Gesù racconta la parabola della pecora smarrita. Il racconto è noto, ma la domanda con cui Gesù avvia la narrazione non è affatto scontata. Se la prendiamo sul serio arriva come uno specchio inatteso a svelare la nostra meschina misura. «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?» Chi di noi? Noi parliamo di rischio calcolabile, di speculazioni finanziarie e danni collaterali, noi che siamo sempre pronti a conteggiare quanto ci danneggiano le disgrazie altrui, saremmo così pronti a partire? A rischiare il tutto per tutto quando il 99% del nostro capitale è depositato in un conto offshore?
Altrettanto imbarazzante la smania di far festa del pastore che, dopo aver trovato la pecora va a importunare chiunque per dire: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Atteggiamento sopra le righe di chi, per una sola pecorella, fa festa come se ne avesse recuperate 100, ma che pure non parla della pecora come uno dei tanti beni del suo patrimonio (non “quella che avevo perduto”), bensì con la consapevolezza della sua irripetibile unicità («che si era perduta»). Alla fine Gesù non parla più per figura: «così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione».
Riconoscere l’unicità preziosa della persona del peccatore, prendersi la fatica e il rischio di andarlo a cercare, recuperarlo senza risentimento, introdurlo alla comunione dei fratelli con gioia, sono atteggiamenti che non parlano di un cuore che agisce d’istinto, che batte l’attimo e s’impenna nella passione.
La parabola ci parla di un cuore che ricorda e sa quel che vuole, se proprio vogliamo utilizzare le classiche immagini trinitarie di intelletto, memoria e volontà. Il Cuore di Gesù lo voglio provare a leggere così, come un cuore che è isolato, estrapolato dal corpo perché senza coperture, spogliato della carne e delle ossa che lo nascondono e proteggono, un cuore che non batte perché motore di un meccanismo più ampio, ma un cuore privato di tutto, anche del suo corpo, che batte gratuitamente, esposto alle ingiurie e al rifiuto, alla violenza e alle ferite. Un cuore così perché sa quel che vuole. E la sua volontà è amare chi è oltre il suo corpo, manifestare che batte per tutti, specialmente per quanti sono lontani da Lui. La sua volontà è come un fuoco che brucia e infiamma nell’intimo. È un cuore che ricorda perché costantemente ferito, perennemente aperto sul mistero di libertà che può separarlo dagli uomini. La ferita del cuore di Gesù ricorda perché ha la nostra forma, è lo spazio in cui l’uomo può ritrovare il suo posto. In quel cuore, soltanto in quel cuore, ritrovo me stesso, il mio profilo completo e la mia misura reale.
Un cuore così gli uomini non ce l’hanno. Però possono lavorarci, con quella disciplina d’amore che insegna il Vangelo, fino a impararlo a memoria, learning by heart.