sabato 12 agosto 2023

Cuori giovani e pavoni

«What I was made for?» Per cosa sono stata fatta? Lo domanda Billie Eilish, che presta le parole a Barbie, catapultata nella complessità del mondo reale da quello chiccherelloso e artificiale delle bambole. Però la questione è seria e in fondo entra come una lama nel burro di scenari contemporanei vuoti di proposte e risposte decisive. O forse, ancora di più, inclini a  silenziare le domande decisive.
Per cosa sono stata/o creato?
In viaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona l'interrogativo piove su chi, tra i 16 e i 20 anni, cerca di dipanare la matassa che ingarbuglia la mente, il corpo e il cuore.


Di queste giornate si dice molto, ma non è facile tradurre in parole quel che nelle parole non ci sta, perché eccedente, nei numeri, come nelle emozioni, negli incontri, come nella bellezza che ti si ribalta addosso ad ogni angolo di strada, dentro i volti, le mani, le voci che ti guardano, ti cercano, ti chiamano.

Per mettere ordine nei pensieri che ruotano attorno a quei giorni mi vengono in mente tre parole.

La prima è ascolto. Siamo abituati, specialmente in ambito ecclesiale, a ridirsi che occorre "ascoltare i giovani": cosa sacrosanta, più invocata che praticata. 
Però nei giorni portoghesi uno si accorge quanto i giovani sappiano ascoltare. Ascoltano le parole del Papa, quelle dei loro coetanei, dei don che li accompagnano. Hanno fiuto per quel che vale la pena ascoltare. Si dirà che non tutti erano consapevoli e attenti, che poi non li ritrovi sempre sulle panche in parrocchia; che c'è da tener conto della logica dei grandi numeri. Però l'esperienza insegna che una parola o un gesto possono restare agganciati anche alle antenne più distratte o refrattarie. A chi predica o accompagna, questa disponibilità all'ascolto che poi è preludio ad aperture del cuore, a racconti di sè che non si sottraggono alla commozione, può anche suggerire, ogni tanto, di tacere.


La seconda parola è identità. In un senso però molto diverso da quello in cui si pone, generalmente, nel mainstream del pensiero, la questione identitaria. Un'identità cioè, che non risponde primariamente alla domanda: «chi sono?» Ma ad un altro interrogativo che mi sembra più "drammatico" per un giovane: ma io, «per chi sono?» E cioè: la mia vita conta davvero per qualcuno? Qualcuno si accorge che esisto?  Mi merito di essere amato così incondizionatamente da Dio? Conto davvero qualcosa per i miei genitori, i miei prof, gli amici, o sono soltanto capace di sbagliare, deludere, non riuscire a raggiungere i risultati che il mondo si attende da me (o quel che penso si attenda il mondo da me?). 

Le ansie che si agitano nel cuore di tanti ragazzi fanno pensare. «A volte - commentava con acutezza un giovane pellegrino - abbiamo più paura della luce che è in noi che dell'ombra». Allo stesso tempo ti accorgi che la vita fiorisce quando qualcuno ti dice che vali, che «non sei un numero», ma una creatura unica e irripetibile, voluta e amata da Dio. È in fondo l'identità che esprimono bandiere, maglie e spillette della Gmg; che non raccontano un'identità fatta per distinguere o prevalere, contrapporsi o difendersi, ma ricchezza da condividere, con cui andare incontro all'altro e cantare la bellezza che ci si porta dietro.

Per raggiungere il centro della propria identità, il pellegrinaggio a Lisbona racconta, una volta di più, la forza rivoluzionaria della tenerezza, del cuore trasparente e diretto di quelli che chiamiamo disabili, che pure custodiscono il segreto di un'abilità che i grandi registi del consumo mondiale pagherebbero oro per acquisire, quella di parlare dritto al cuore, di smuovere ogni resistenza o presunzione, di smascherare, come spiegava un altro pellegrino - «i filtri che complicano le nostre relazioni». Il carisma dei "ragazzi", dei più fragili, dei "piccoli", oggi più che mai rivela una forza capace di curare ferite e fragilità che gli specialisti sanno spesso soltanto certificare. 


La terza parola è croce. Col passare dei giorni il pellegrinaggio, con le sue fatiche e i suoi intoppi, con la preghiera e la confidenza, permette di comprendere che nonostante i richiami di divertimento o distrazione mondani non è possibile scansare la realtà della croce. Dentro un cuore giovane non c'è soltanto e primariamente una spensierata allegria. Nelle «montagne russe» delle emozioni vissute a Lisbona ci siamo confrontati con la complessità, ma anche con qualcosa di più grande. «Credo di non aver mai conosciuto la vita come in questi giorni», affermava una ragazza durante una condivisione. «La grazia - commentavano altri - non passa solo attraverso i momenti di gioia, ma anche di pena e di dolore», e altre voci hanno aggiunto: «Ho imparato l'arte di essere fragili e l'arte di essere forti». D'altronde «quando sono debole - ricordava San Paolo - è allora che sono forte». È la scoperta tracciata da un amore più grande, che intreccia ogni cosa, ti cerca, ti sostiene, accompagna in silenzio, perdona, fa entrare nello spessore della vita, attende risposta.


Sono le acquisizioni fondamentali della vita di fede, che ti arrivano addosso come una ventata improvvisa e ti fanno intuire per cosa sei stata/o creato. Nelle crisi che non controlli o negli imprevisti del viaggio, nel malessere che blocca chi hai accanto e chiede di rimodulare nei ritmi e nei modi il tuo viaggio, nell'orizzonte che si apre oltre la linea del mare, nel sole che si colora di rosso al tramonto, nel silenzio che nella notte riempie la distesa di giovani in preghiera lungo le rive del Tago o nelle apparizioni improvvise della grazia. 
Come nei tre pavoni planati in mezzo alle confidenze dei giovani, antichi richiami di bellezza ed eternità per chi è pellegrino in questo mondo. 

lunedì 21 novembre 2022

Chiamare per nome

La Solennità di Cristo Re, chiusura dell’anno liturgico, ci ripresenta il brano della crocifissione di Gesù con la viva e paradossale tensione tra regalità e umiliazione, gloria ed abbassamento. Quel crocifisso è il Signore dell’Universo. Esplicitato per intero il titolo di questa solennità — Solennità di nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo — risuona oggi ultra cattolico. Eppure tutto chiede di tornare all’ora della croce.


Il brano di Luca per la solennità di quest’anno suona fin troppo asciutto a chi è abituato agli effetti speciali e ai grandi sentimenti. C’è spazio soltanto per le parole e le reazioni dei presenti: ci sono i capi («Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto»), i soldati («Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso»), uno dei ladroni crocifissi con lui («Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!»). Uno dopo l’altro, contestando e prendendo in giro elencano, in una sorta di cristologia negativa, i titoli di Gesù: l’“eletto”, cioè l’unto, il “Cristo di Dio”; il “Re dei Giudei” (e Gesù d'altra parte discende dalla casa del re Davide); il salvatore a cui si grida “salva te stesso e noi”. Poi c’è l’altro, il ladrone che chiama il crocifisso per nome: «Gesù» ed è l’unico ad aver capito, l’unico ad accogliere la misericordia che quel crocifisso innocente è pronto a donare a tutti.

Perché, su uno che muore così, possiamo scommetterci la vita? Perché sul crocifisso si costruiscono impegni di vita, nel suo nome si spendono ore di volontariato e di proposte educative? Perchè, per amore di quel crocifisso, "perdere tempo" nell’orazione, percorrere le vie della verginità, arrivare a donare al vita nel martirio?

Quel crocifisso ci sta sempre sotto gli occhi. Dice che nella pena, nell’umiliazione e nella sofferenza si può leggere altro. C’è un mistero regale che parla di accoglienza, comprensione, fraternità profonda. Quel crocifisso si può chiamare per nome. Ha un nome come il mio. E d’altronde non può essere lontano da me e dal mio sentire chi muore così sulla croce. Anche se nel suo silenzio e nella sua innocenza, le ferite, i chiodi, le umiliazioni non sono solo sue, sono le nostre in lui e sopra di lui. Quando lo comprendiamo entriamo nello spazio della misericordia.

Non so se sia il peso dei nostri peccati, o quello dei nostri dolori, non so se siano le nostre lacrime oppure il grido e la bestemmia di chi sfida il Cielo nell’ora della prova. Non so se siano gli strazi delle guerre e le violenze degli uomini, le tragiche "leggerezze" dei bulli o i morti innocenti. Però c’è un mistero, un orizzonte più largo e spesso sorprendente che si affaccia alla vita quando l’ora della prova, quella della croce, si apre alla misericordia.

Oltre le distrazioni del mondo contemporaneo e le ubriacature del consumo, al di là delle apparenza di chi passa la vita a “flexare” con macchinoni tirati a lucido, quattrini facili e donne oggetto, c’è un universo di fragilità e paure, di solitudini e cuori spenti.

In attesa della metropolitana, con gli occhi persi nell’oscurità del tunnel, sul crinale tra la ripartenza e lo spazio invalicabile dei binari e del pericolo di morte, addormentati o ubriachi sui vagoni, i personaggi del video musicale che accompagna un brano di Max Richter, intitolato “Mercy”, “Misericordia” compongono poeticamente suggestioni metropolitane di “ordinaria” misericordia. «Il bellissimo film di Yulia Mahr (si legge nel commento al video su YouTube) pone saldamente la questione della misericordia e della compassione nel nostro mondo quotidiano».

Aprono e chiudono il video, tutto o quasi girato dentro e fuori gli ambienti sotterranei della metropolitana, ritagli di cielo con stormi di colombi in volo e uno sguardo dall’alto che scorre lento sulla città. Sotto la superficie della metropoli la vita scorre tra marginalità e solitudini e dietro i volti di passeggeri di ogni età si intrecciano il miracolo della nascita e il dolore della malattia, il passato e il presente, gli abbracci di chi si ama e il senso di attesa di chi è in costante viaggio, tra una sosta e l’altra della giornata e della vita. Tra un volto e l'altro un fiore che sboccia, le onde del mare, l'acqua che scorre. E in questo sotterraneo andirivieni tra i non luoghi dell’ordinario urbano si aprono esperienze di misericordia. È l’umano che si ritrova, si riconosce, risuona come una sveglia nella vita e si apre a qualcosa di più grande che lo compie, atteso, cercato ma sempre sorprendente. La vita tocca qualcos’altro. È lì che intuisci i segreti del Regno, la leva che ribalta il mondo e lo prepara a una nuova, differente fioritura. 

Così capisco meglio il crocifisso che incrocia, con il suo mistero di innocenza offesa e umiliata, ma anche di profonda fraternità e compassione, la vita di ogni donna e uomo. A lui, che pende dalla croce in silenzio davanti a me, posso rivolgermi chiamandolo per nome. Poi, su per le misteriose vie della grazia e della fede, posso arrivare a comprenderlo Salvatore, Cristo, Figlio di Dio, posso anche chiamarlo Re e Signore dell’Universo.

venerdì 7 ottobre 2022

Tornare al cuore dall'orlo della catastrofe

Dentro ci sono alcuni punti fermi della sua poetica, ma in una lettera scritta a macchina per lanciare il suo ultimo album sono soprattutto illustrati, con acume e sensibilità poetica, alcuni tratti dolenti del nostro tempo. Weyes Blood, nome d'arte di Natalie Laura Mering, sofisticata cantautrice americana che ha sfornato uno dei più  bei dischi degli ultimi anni (Titanic Rising, Sub Pop 2019) abbozza così, tra strategia promozionale e genio artistico, una tagliente riflessione.

«La nostra cultura - scrive - si basa sempre meno sulle persone. Questo genera un nuovo, inedito livello di isolamento. La promessa di poter comprare la nostra via d’uscita da questo vuoto offre poco conforto di fronte alla paura con cui tutti conviviamo: la paura di diventare obsoleti. C’è qualcosa che non va, e anche se la sensazione appare diversa per ogni individuo, è universale».

La preoccupazione per una tecnologia sempre più invasiva e distraente non è nuova per Weyes Blood. L'iper isolamento dovuto alla pandemia ha poi acuito questa sua (e nostra) consapevolezza. Così, nella sua lettera scritta a macchina, sottratta alla facilità del copia e incolla, redatta nel ritmo lento e soppesato di lettere impresse sulla carta una volta per tutte, parla di una tecnologia che distrae l'uomo da sé stesso, spingendolo a cercare "fuori" quanto avrebbe bisogno di trovare dentro di sè. Eppure anche Sant'Agostino diceva qualcosa del genere: Noli foras ire, in te ipsum redi (non uscire fuori di te, ritorna in te stesso). E forse Gesù intendeva qualcosa di ancora più semplice quando raccontava del figliol prodigo che «rientrò in se stesso», o quando parlando ai discepoli li spingeva a «cercare il cibo che rimane» o incontrando la Samaritana la portava all'acqua viva passando dalle sue inconsistenze. 


Il video che accompagna il singolo di lancio "It's Not Just Me, It's Everybody" offre uno sguardo distopico, ma neanche troppo, sulla realtà. 

Natalie Mering, descritta con quell'estetica fin de siècle che già respira i fumi della catastrofe, danza un grottesco balletto in un vecchio ed elegante teatro disseminato di cadaveri. Sul palco uno scenario di distruzione, una Guernica di morti e rovine in cui balla e canta in veste di marinaio. Una nave che affonda? Un modo per ricordarci che siamo tutti sulla stessa barca? Teatro o realtà? Un piccolo smartphone ballerino le contende la scena e si nutre dei cadaveri. La tecnologia ruba all'uomo il proprio posto sulla scena del mondo, ne divora la vita. Una bomba, nel tempo in cui la minaccia nucleare si riaffaccia prepotentemente, è pronta a schiantarsi sulla scena, sospesa nel vuoto a un passo dal palco.

Il testo del brano è accompagnato da un ritornello che dà nome anche alla canzone: «non sono io, siamo tutti». Un'espressione di ispirazione buddista che serve alla Marling per parlare dell'interconnessione che lega ogni creatura e cantare la comunione nel tempo dell'isolamento: «tutti sanguiniamo allo stesso modo»; per poi invocare, su tutti, misericordia. 


Oltre la messinscena straniante e grottesca del video, oltre il tentativo di gettare luce sul «nostro disincanto contemporaneo», nella sua lettera scritta a macchina c'è l'invito a riconoscere nel cuore, cifra dell'umano, con i suo ritmi originari e il suo continuo bussare alle porte delle nostre distratte esistenze, «una guida», «una sorgente di speranza», una luce «che splende in questi tempi oscuri».

Se dunque guardassimo dentro noi stessi, nel nostro cuore, cosa troveremmo?


Vivendo nella scia di cambiamenti troppo grandi
siamo diventati tutti estranei
perfino a noi stessi
Non possiamo farne a meno
Non riusciamo a intendere da lontano
che ogni onda potrebbe non essere la stessa
ma che fa tutto parte di qualcosa di grande

La misericordia è l'unica
cura per il nostro essere così soli
Mai un tempo è stato più capace di rivelare
che le persone si stanno facendo del male
Oh, non sono solo io
Immagino che siano tutti
Sì, sanguiniamo tutti allo stesso modo


Sitting at this partyWondering if anyone knows me
Really sees who I am
Oh it’s been so long since I felt really known
Fragile in the morning
Can’t hold on to much of anything
With this hole in my hand
I can’t pretend that we always keep what we find
Yes everybody splits apart sometimes

Living in the wake of overwhelming changes
We’ve all become strangers
Even to ourselves
We just can’t help
We can’t see from far away
To know that every wave might not be the same
But its all apart of one big thing

Oh it’s not just me, it’s not just me
It’s not just me, it’s everybody

Mercy is the only
Cure for being so lonely
Has a time ever been more revealing
That the people are hurting
Oh it’s not just me
I guess it’s everybody
Yes we all bleed the same way

giovedì 23 giugno 2022

La disciplina del cuore


C’è una bella espressione in inglese che ci aiuta a leggere l’immagine del Cuore sotto una luce un po’ differente da quella del pensiero comune: learn by heart traduce infatti il nostro “imparare a memoria”. Ora, mentre l’italiano ci richiama l’aridità delle tabelline, o la fatica di snocciolare, uno dietro l’altro, nomi, date o versi difficili, l’inglese ci suggerisce che quel mandare a memoria può avere un valore più profondo, di qualcosa acquisito una volta per tutte, che riecheggia, da qualche parte in noi, come il battito del cuore. Festeggiamo il Cuore di Gesù ma quale cuore abbiamo in testa? 

Cuore è una delle parole, insieme a quelle con cui è solito fare rima, forse più abusate. “Al cuor non si comanda”, “con il cuore”, “lo vuole il cuore”, “lo dice il cuore”, potremmo continuare a lungo per notare l’evidente protagonismo del “cuore” in molti aspetti del nostro mondo. Un cuore però piuttosto diminuito, assunto nella sua dimensione meramente affettiva o, meglio, emotiva. Potremmo dire sentimentale, ma suona desueto, oltre al fatto che parlare spesso di sentimenti non significa affatto che li si riesca a distinguere dalle emozioni. Il parlare diffuso del cuore galleggia spesso in superficie, là dove le “ragioni del cuore” assumono la forza dell’imperio,  per cui il cuore tiranneggia, si esprime invocando diritti e scambia l’arbitrio per l’amore.

Chi ama, o almeno ci prova, sa che amare non è questione di un attimo. L’amore non è un’emozione, è una scuola. Ci educa, chiede tempo, è gratuito ma non scontato, semplice ma non sempre facile. Allo stesso modo il Sacro Cuore di Gesù non è né roba da suore o deliquio romantico, neppure estenuata sensibilità barocca, per quanto si spieghi bene con la mania degli emblemi in voga a quei tempi. È certo una parte del tutto, non una vivisezione di Cristo. 

Però questo cuore, il Cuore di Gesù, quel cuore che l’iconografia ci mostra nel profilo anatomico dell’organo isolato, coronato di spine, ferito, sanguinante e acceso da una fiamma, mi sembra che si spieghi alla luce di una dimensione teologica più originaria ancora dei misteri dolorosi della vicenda di Cristo a cui rimandano quei segni. Che è poi la radice con cui si spiega l’intera opera di redenzione realizzata da Cristo, il Figlio di Dio. È la radice di una disciplina trinitaria d’amore, propria del Dio che è Padre che genera, Figlio amato ed amante nell’obbedienza, Spirito di comunione che stringe il Padre e il Figlio e del loro amore è testimone e dono reciproco.

Ci aiuta il brano del Vangelo proposto per questa solennità, dove Gesù racconta la parabola della pecora smarrita. Il racconto è noto, ma la domanda con cui Gesù avvia la narrazione non è affatto scontata. Se la prendiamo sul serio arriva come uno specchio inatteso a svelare la nostra meschina misura. «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?» Chi di noi? Noi parliamo di rischio calcolabile, di speculazioni finanziarie e danni collaterali, noi che siamo sempre pronti a conteggiare quanto ci danneggiano le disgrazie altrui, saremmo così pronti a partire? A rischiare il tutto per tutto quando il 99% del nostro capitale è depositato in un conto offshore? 

Altrettanto imbarazzante la smania di far festa del pastore che, dopo aver trovato la pecora va a importunare chiunque per dire: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Atteggiamento sopra le righe di chi, per una sola pecorella, fa festa come se ne avesse recuperate 100, ma che pure non parla della pecora come uno dei tanti beni del suo patrimonio (non “quella che avevo perduto”), bensì con la consapevolezza della sua irripetibile unicità («che si era perduta»). Alla fine Gesù non parla più per figura: «così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione». 

Riconoscere l’unicità preziosa della persona del peccatore, prendersi la fatica e il rischio di andarlo a cercare, recuperarlo senza risentimento, introdurlo alla comunione dei fratelli con gioia, sono atteggiamenti che non parlano di un cuore che agisce d’istinto, che batte l’attimo e s’impenna nella passione. 

La parabola ci parla di un cuore che ricorda e sa quel che vuole, se proprio vogliamo utilizzare le classiche immagini trinitarie di intelletto, memoria e volontà. Il Cuore di Gesù lo voglio provare a leggere così, come un cuore che è isolato, estrapolato dal corpo perché senza coperture, spogliato della carne e delle ossa che lo nascondono e proteggono, un cuore che non batte perché motore di un meccanismo più ampio, ma un cuore privato di tutto, anche del suo corpo, che batte gratuitamente, esposto alle ingiurie e al rifiuto, alla violenza e alle ferite. Un cuore così perché sa quel che vuole. E la sua volontà è amare chi è oltre il suo corpo, manifestare che batte per tutti, specialmente per quanti sono lontani da Lui. La sua volontà è come un fuoco che brucia e infiamma nell’intimo. È un cuore che ricorda perché costantemente ferito, perennemente aperto sul mistero di libertà che può separarlo dagli uomini. La ferita del cuore di Gesù ricorda perché ha la nostra forma, è lo spazio in cui l’uomo può ritrovare il suo posto. In quel cuore, soltanto in quel cuore, ritrovo me stesso, il mio profilo completo e la mia misura reale. 

Un cuore così gli uomini non ce l’hanno. Però possono lavorarci, con quella disciplina d’amore che insegna il Vangelo, fino a impararlo a memoria, learning by heart.


venerdì 14 gennaio 2022

Alla ricerca di quel che abbiamo smarrito

Seconda domenica del Tempo ordinario (Gv 2,1-11)

C'è dentro un po' tutto il disagio di questi anni di pandemia. Tra lockdown severi e quarantene, smarrimenti globali e ansie personali. La vita rotola dal salotto alla camera da letto, dal bagno alla cucina, prigioniera di un'alienazione che sembra svuotare di senso e densità ogni cosa. 

Il video si intitola Gennaio (January) e accompagna l'ultimo disco dei Postcards, gruppo libanese che suona un dream pop di rango in lingua inglese, decisamente fuori contesto. Accompagnano il video parole che sgomentano: 

Boats at our window / parked on our street / we live in water / caught in a stream / (Barche alle nostre finestre / parcheggiate nelle nostre strade / viviamo nell'acqua / portati dalla corrente). C'è il senso del naufragio e di una forzata passività che costringe a restare in balia di fenomeni più grandi e ingovernabili. 


«I’ve seen the future / it’s all the same»  (Ho visto il futuro / è tutto uguale). Un tempo uguale a se stesso che assomiglia al tempo vuoto di cui ci siamo lamentati durante il lockdown e che dopo due anni di pandemia sembra più che altro svuotato. Gennaio, l'inizio del nuovo anno, sembra già scontrarsi con la consapevolezza drammatica di chi non ha più nulla da aspettarsi. Un'amara costatazione che senti raccontare, qua e là, da chi, anche più giovane, è rimasto schiacciato dall'isolamento e dalle sottrazioni della pandemia, privato perfino delle passioni tristi. Cosa hanno visto gli occhi inquadrati nel video tra il suo inizio e la fine?

Il tempo vuoto lo colma soltanto, nelle parole del pezzo, un dolore che invade ogni cosa, raggiungendo le profondità nascoste dietro lo sguardo della lunga zoomata nel video. «Grief to grow old with / grief as an end / grief as a neighbor / grief as a friend» (Dolore con cui invecchiare / dolore come una fine / dolore come vicino di casa / dolore come un amico). 

Dentro il brano dei Postcards e attraverso l'intero album ritorna - come dichiarano gli stessi membri - il dramma di una nazione allo sbando e la tragedia del porto di Beirut, sventrato da un'esplosione terrificante l'agosto del 2020. 

«Non hanno più vino» segnala Maria a Gesù durante le nozze di Cana. Le giare sono vuote. O svuotate. Chissà. Resta il fatto che quel vino racconta di una gioia smarrita, di nozze che rischiano di smarrire il senso della festa. L'occhio di Maria ha saputo cogliere subito il problema. 

Gesù non farà mancare il vino. Ce ne sarà in sovrabbondanza, e di ottima qualità. Il segreto della festa è lui che lo dona. Così nella manifestazione di Cana c'è anche il segno di un tempo differente, che corre verso un'ora decisiva, in cui la grazia si manifesta, dove parole e gesti diventano segni. L'acqua dello smarrimento si trasforma nel vino della festa ritrovata. Un'esperienza che permette di riprendere il mare e puntare al largo: «e i suoi discepoli credettero in lui».

Non dimentichiamocelo in questo nuovo gennaio di pandemia. 

domenica 13 dicembre 2020

Segnali nella notte


«Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce». E questo fa pensare che il Vangelo di oggi si capisca meglio nelle tenebre. «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete». «Ecco, guardi priore, questo è proprio per me. È quello che vivo io». Lo ripete con il capo basso, seduto sulla panca in fondo alla chiesa. Con lo sguardo perso non so bene dove. Rintanato nel piumino con ai piedi le pantofole e per pantaloni il pigiama. Un’anima smarrita, per una vita di ferite ed errori che si avvolgono su se stessi. Ma io devo parlare della gioia, perché questa è la domenica Gaudete, nella quale la liturgia ci invita a rallegrarci, e poi c’è il rosa, che non è viola e c’è il Natale che si avvicina e  infatti c’è anche il presepe. E poi penso all’uggia che posso fare con questi discorsi, e all’uggia che mi facevano i predicatori di gioia dalla faccia triste. E un po’ anche a quella che posso avere io qualche volta. Però a guardarmi intorno la gioia non è facile rintracciarla, perché la chiesa è semi vuota e ci piove dentro e c’è un freddo che tiro via a finire prima che mi si ghiaccino i piedi. 

«Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa». Così dice di sé il Battista, dopo che per tre volte ha fatto sapere quello che non è. Non il Cristo, non Elia, non un profeta. Un’identità che si capisce per via di negazione. Soltanto sfrondando ogni incrostazione, rimuovendo ogni maschera e proiezione si capisce il Battista e il Battista capisce se stesso. 

Ho l’impressione che lo stesso sia chiesto pure a noi. Perché appaia la reale misura della nostra identità occorre stare sulla soglia di una verità paradossale, quella dell’umana miseria e di un’attesa infinita, quella di una fragilità ontologica e del desiderio di una nuova vita, quella della consapevolezza di accrescere l’entropia e di essere, allo stesso tempo, spazio d’azione della grazia. Allo stesso modo per essere veri testimoni, autentici "ripetitori" del Vangelo, occorre togliere ogni realtà che disturbi la frequenza. Lo sperimentiamo con forza in questi mesi di paure ataviche e isolamento. È proprio nelle tenebre dell'anno di grazia 2020 che deve arrivare la luce, risuonare la voce e avvicinarsi il Natale. 

Su queste corde batte la poetica della soglia che attraversa Orphée, l’ultimo disco di Johann Johannsson, compositore islandese scomparso prematuramente due anni fa a 48 anni. Di soglia si parla per via del mito di Orfeo, che con la sua musica è capace di riportare in vita l’amata Euridice, per poi perderla di nuovo, ma imprimendo nella storia del pensiero la potenza fascinante delle arti e in particolare della musica. Lo ammetteva lo stesso Johannsson, spiegando che Orphée «ha a che fare con le soglie – tra mondi, tra luce e tenebra, tra estremi». È la soglia evocata nel video “Song for Europa”, dove la soglia attraversata da Orfeo si trasforma in «quella che passava attraverso due mondi e due ideologie (…). Dopo pochi decenni di relativa calma — spiegava Johansonn — sembra che l’Europa lentamente torni a separarsi e che stiamo entrando in tempi turbolenti o almeno sulla soglia di qualche cambiamento più grande». 


https://youtu.be/dCWbVxfkoKg

Nel videoclip, ambientato in un ambiguo passato che richiama alla mente gli anni della guerra fredda e il muro di Berlino, un’antenna radio lancia segnali che attraversano lo spazio in luminose onde sonore. Dall’abisso di lontananze indefinite affiorano segnali in codice, numeri pronunciati in tedesco, messaggi criptati da imprecisate emittenti radio. Voci capaci di spalancare inedite suggestioni, ma anche di arrivare lontano, oltre le barriere del tempo e dello spazio, oltre i muri degli uomini e le difese dell’anima. Un segnale che arriva. Una luce che raggiunge. Si spalanca un mondo che apre un orizzonte ancora da decifrare.

Un messaggio di speranza che chiede di tendere l'orecchio, ma che passa ogni distanza. Ci ripenso e ripenso alle tenebre e alla domenica della gioia. Finché non mi arriva il disegno che ha fatto S., dove si vede la sacra famiglia raccolta attorno a un neonato Gesù bambino. Sotto c’è una frase che nella sua semplicità fa lasciare ogni esitazione: «Giuseppe e Maria sono felici di Gesù». 

domenica 6 dicembre 2020

La locusta del Battista


II Domenica di Avvento - anno B

C’era quella finestra col vetro rotto e il falegname lì per dare un’occhiata. Spiegavo, raccontavo, indicavo, ma lui fissava la finestra, con i suoi infissi sgangherati e consumati dal tempo. E mentre mi piegavo ad aprire il chiavistello in basso e lui elaborava interventi di falegnameria sfiorando e picchiettando i vetri con le dita, mi sono accorto che stava lì. Agganciata e mimetizzata con la serratura. Una locusta del colore del bronzo, creatura aliena in cerca di riparo dal freddo che da sempre suscita in me il più atavico orrore. Non ho fatto in tempo a vedere la mia faccia sconvolta nel riflesso del vetro. Una faccia come non me la immagino, ma così com'è.

Così però mi immagino il Battista, che punta il dito sull’orrore che ti porti addosso e non ti accorgi. O forse soltanto su quello che non scorgi mai nell’ordinario, ma che sta lì appeso forse da tempo immemorabile ma che appena scopri mette a nudo il tuo volto più profondo. Perché, altrimenti, dare credito a un tipo così alternativo, spingersi nel deserto per ascoltarlo e farsi immergere nell’acqua in un battesimo di conversione?

Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.

Preparare la via, raddrizzare sentieri. A che cosa? A chi? E come? L’attacco del Vangelo di Marco butta là alcuni attrezzi fondamentali per quest’opera di preparazione. Che poi è una sorta di meccanica dello Spirito in cui il progetto è nella mente e nelle mani di un altro. C’è, d’acchito, l’urgenza di un cambiamento. Niente mezzi termini. Qualcosa sta per accadere e qualcuno sta per arrivare. Preparate la via. Convertitevi.

Ma quest’urgenza non è troppo distante dal sentire di questo tempo. Dalle ansie e dal sentimento collettivo di mesi di emergenza sanitaria mondiale. Un tempo che si può leggere alla luce di una bella poesia in musica, un rap tramutato in esperienza letteraria, che oggi chiamano spoken-word. E che ti punta il dito addosso e rivela qualcosa che fatichi a riconoscere e vedere. Sono i versi di People's Faces di Kate Tempest.

Un altro disastro/ Catarsi / Un altro miraggio mezzo scartato/ Un'altra maschera che scivola via

Per qualcuno serve una locusta ad aprire gli occhi. Per tutti c’è una pandemia mondiale. O meglio, la nostra paura e il nostro limite. Per il Battista lo sguardo si apre nel deserto. Anzi, lì si aprono gli orecchi perché la parola emerge in tutta la sua forza. 

Nel deserto parla di via, di sentieri, di cammino. Ed è una via che ha il sapore agro dell’esodo. Quello archetipico degli ebrei in fuga dall’Egitto verso la terra promessa, quello storico del ritorno da Babilonia, quello spirituale di chi è condotto nella regione del non ordinario, e di lì intende ripartire ricalcolando il percorso. È la via della vita, con i suoi rischiosi fuori pista, e le svolte improvvise, discese a capocollo e salite interminabili.

Il deserto, la via; Giovanni aggiunge il battesimo. Che poi è entrare nell’acqua dopo essersi immersi nella verità dei propri peccati, è il lavacro che arriva dopo aver misurato il proprio disordine, il gesto che sancisce la presa di posizione sulla propria esistenza, sulla novità che entra nella vita. È anche il nostro battesimo — quello sacramentale — forse dimenticato, tradito, rifiutato, ma mai venuto meno. Un dono che fa partecipi della vita divina e che non finiremo mai di perlustrare.

E poi lo Spirito. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo dice il Battista. L’acqua bagna, la bevo e la vedo, ma lo Spirito Santo quando l’ho mai sperimentato? Forse in un sentire profondo che non so bene da dove spunti in me. Spirito dice già qualcosa di invisibile ma decisivo, come il vento che spazza dai monti alle strade, ma che senti mugghiare e sibilare, ed è capace di scoperchiare tetti ed abbattere alberi secolari. Spirito come realtà mobile, penetrante, vitale, che vive l’irrisolta tensione con il terrestre, o meglio il mondano, con la fissità della propria routine e dei propri schemi di vita.

Ecco bell’e fatto, un piccolo dizionario di vita spirituale alla portata di tutti: deserto, via, battesimo, Spirito.

Le vie del cambiamento cristiano partono da qui. Arnesi per una vita spirituale che solo il Signore sa dove condurre e assemblare. Strumenti di verità su noi stessi e sugli altri.


https://youtu.be/TSMffdtyOwI

Uno sguardo a tratti sgomento e amaro sul mondo di oggi è accompagnato nell’ultimo lavoro di Kate Tempest (The Book Of Traps And Lessons, 2019) da un’apertura di speranza, “rivelazione” di un cambiamento possibile. «In "People's Faces" — confida in un’intervista — dico “sto affondando”. Ed è difficile. È un grido disperato, ma i volti degli altri mi salvano. È la cosa più semplice del mondo, l’espressione amorosa meno complicata possibile. Guardare qualcuno negli occhi. Le persone sono splendide, davvero». 

Pure lei, che ha spesso il dito puntato sulle fratture del nostro tempo, nella sua laica ma umanissima poesia mette insieme un piccolo vocabolario di spiritualità contemporanea.

Dentro c’è la parola “sistema”, espressione forse un po’ consumata ai nostri orecchi, ma comunque efficace per descrivere i perversi meccanismi economico-politici del nostro tempo, ma anche quelle profonde strutture negative che ci portiamo dentro, che per chi crede assumono il nome di “peccato”. C’è la parola “sintomo”, scaturita dalla capacità di cogliere i segnali di disagio di fronte a un paradigma disumano, accompagnata da “sentire”, che è il sentire dentro di sé l’urgenza del grido e del pianto che montano, ma anche un sentire profondo per ciò che si muove fuori di sé: («Sto ascoltando ogni piccolo sussurro in lontananza cantando inni/ E posso sentire le cose/ Cambiare»). C’è la parola “città”, che racconta un’esistenza immersa, tra luci e molte ombre, nelle viscere del metropolitano (Guardo la mia città in un altro giorno difficile / E grido dentro di me / Quando cambierà tutto questo) e che assomiglia un po' al deserto, e poi “carne”, in cui recuperare il senso di una profonda fraternità umana, legata da «un’unica carne», e poi “empatia”, “rispetto”: sentimenti che fioriscono da uno sguardo contemplativo sul volto degli altri. Eccole, infine, le parole “volto”, “faccia”. Un piccolo vocabolario che custodisce una traiettoria interessante, perché dal sistema porta alla persona, al volto.

 



«Non ci saranno nuovi inizi

finché tutti non vedranno che le vecchi modi di fare devono finire»

Ma è difficile accettare di essere tutti un’unica carne. Date

le divisioni dilaganti tra oppressori e oppressi

Ma lo siamo.

 

Più empatia

Meno avidità

Più rispetto

 

(…)

 

Sono tutta spirito ma sto affondando

Perché i nostri giorni non sono giorni ma strani sintomi

Questo è il nostro tempo

 

Sto ascoltando ogni piccolo sussurro in lontananza cantando inni

E posso sentire le cose

Cambiare Questo è il nostro

Tempo ma il nostro tempo è la rabbia che affonda nel beige

E sì i nostri figli sono coraggiosi

Ma la loro missione è vaga

Ora non ho le risposte

Ma ci sono ancora cose da dire

Guardo la mia città in un altro giorno difficile

E urlo dentro di me

Quando cambierà questo

Sto cominciando a svanire

Ma la mia sanità mentale è salva, perché posso vedere i vostri volti La

mia sanità mentale è

salva Perché posso vedere i vostri volti

 

Niente di tutto questo era scritto nella pietra

La corrente è veloce ma il fiume si muove lentamente

E posso sentire le cose cambiare

Anche quando sono debole e mi sto spezzando

rimango a piangere alla stazione

dei treni Perché posso vedere i vostri volti

Amo i volti delle persone