Romanzo di formazione in tre parti.
3. FORMA
Il seminarista in vacanza si aggira in un’età compresa tra i
20 e i 40 anni inoltrati. Un ventennio che sembra appiattirsi sempre più sul
decennio dei teenager. Non è mai troppo tardi però, per imparare a leggere la
vita alla luce di Dio. La realtà si fa più densa e ogni gesto assume spessore:
Dio ci educa. Specialmente in vacanza, quando il seminarista può crescere nel
servizio e nell’ascolto. Allora, infatti, misura se la sua vita prende quota o
si impantana; se è desideroso di trascinare i fratelli a Dio o a sé stesso.
Il seminarista in vacanza è fiero dei suoi studi. Quando
ascolta omelie o qualche predicozzo può ripetere tra sé: “ah..qui la so
lunga..qui ricordo bene..questo prete rigira sempre la solita frittata..” Ma la
sapienza di un sacerdote carico d’esperienza e di decenni è tutt’altra cosa. Certamente
occorre imparare, studiare, aggiornarsi, ma occorre anche crescere in sapienza
e accogliere i doni dello Spirito. Quelli che passano – e passano sempre -
anche nelle omelie più scalcinate e nelle mille indicazioni, grandi o minime,
che scaturiscono dal popolo di Dio.
Dopo un anno di istruzioni spirituali però,
il seminarista in vacanza assiste all’omelia un po’ distratto. D’altra parte il
suo forte -con qualche eccezione – è il rito. Ha imparato tutto sull’ars celebrandi e sulla preghiera. Ore di
allenamento tra gli scranni e gli altari del collegio/seminario lo hanno ben
istruito. Ma alla messa Andrea, un disabile grave, si batte il petto e scandisce
con il candore purissimo che hanno soltanto i bambinelli del presepe, le parole dell’atto penitenziale. Mentre
andiamo cercando le formule per una migliore actuosa participatio i piccoli di Dio sono già dentro le dimensioni
profonde della preghiera. Senza accorgersene superano se stessi, già trasfigurati
in matite, pennarelli ed evidenziatori di Dio.
Il seminarista in vacanza recita con scrupolo l’Ufficio,
come il diligente alunno elementare che svolge i compiti a casa in attesa della
merenda. Ma prima della messa, tra le panche della chiesa, una madre si
avvicina al tabernacolo, si inginocchia, sosta un minuto, accende una candela.
Anche in ospedale c’è una madre accanto ad un tabernacolo. E’ il letto dove
giace il figlio disabile ormai nelle sue ultime ore, al culmine di un doloroso
calvario. Adesso è il momento della “nuda croce” mi dicono. Ma la vita della
mamma è stata tutta spesa per accogliere al meglio la croce e trasfigurarla in
trofeo d’amore.
Non ci sono crediti formativi per
misurare il valore di un corso del genere, né molte altre vie per ricordarsi
che la vocazione è dono di sé. Che la vera sapienza è umile. Che il cuore di
ogni chiamato Dio lo vuole indiviso.
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27 luglio 2013, Rio de Janeiro, XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù, adorazione eucaristica al termine della veglia |
Nel mistero Eucaristico tutto si ricompone, come una goccia
in cui è riflessa terra e cielo e che concentra tutto in sé stessa. Senza
questo mistero la giornata del seminarista non ha un centro. Senza l’eucarestia
non c’è cristianesimo e la chiesa cattolica diventa teatro. Tutto è assunto nel
sacrificio della messa in cui ci è donato di rivivere il mistero della passione
morte e resurrezione di Cristo. Ricevere e assumere la forma del pane eucaristico
è il cammino continuo del seminarista prima e del prete poi. Una ‘forma’ che
per Von Balthasar, il noto teologo, è la cifra del ‘caso serio’, quella forma
compiuta che rivela l’essere e la propria vocazione.
Il seminarista in vacanza sperimenta, difatti, che la vera,
grande tentazione è allontanarsi da quella forma divina, tradire la vocazione
cui si è chiamati.
In fondo è la
tentazione grave che incombe su tutti. Individuare la propria vocazione,
discernerla alla luce dello Spirito, conformarla a Cristo nello stato di vita a
cui chiama: è questo il caso serio che preoccupa uomini e donne compresi tra
gli ‘enti’ e gli ‘anta’, perfino quelli che non hanno molta dimestichezza con
la fede cattolica.
E’ l’inquietudine che il seminarista provoca - anche involontariamente- con la sua scelta e che cova, attorno a lui, sotto i sorrisi e le lacrime di
ogni giorno. Affiora nelle uscite del sabato sera e negli aggiornamenti
reciproci, quando ci si scopre nella vita dei ‘grandi’ senza aver ancora capito
bene cosa essere ‘da grandi’. Nel frattempo si sono manifestate incrinature
interiori, sono affiorati momenti rimossi e se qualcosa va storto ti scopri di
colpo – quasi con sgomento – incredibilmente fragile. Molti hanno frainteso le parole di Gesù. Molti non le hanno
comprese o non hanno accolto il suo
messaggio. Ma quando Gesù piangeva per la morte di Lazzaro, anche se i più
ostili hanno subito mormorato, non ci sono stati fraintendimenti: “Perciò i
Giudei dicevano: «Guarda come l'amava!»” (Gv 11,36). Il seminarista in vacanza incontra
anche le lacrime. Da prete ne incontrerà tante di più. Salendo e scendendo
per le strade della Palestina, nei percorsi quotidiani degli uomini, anche Dio ha pianto.
Anche le lacrime, quale lingua universale, possono far
intravedere la ‘forma’. L’icona è nella Passione
di Giovanna d’Arco di Dreyer, il celebre film muto del 1928. Per
l’interprete è un tour-de-force di primi piani tra estasi e lacrime. Giovanna è ormai prigioniera. Gli uomini
la fanno piangere, la interrogano, la accusano, la tormentano e la condannano.
Poi, con l’inganno, la costringono ad abiurare. Ma nel carcere, quando acquista
consapevolezza dell’errore commesso, il pianto di Giovanna è ancora più
eloquente. La forma è compiuta ancora prima del martirio. Gli inquisitori
aguzzini di fronte a quella forma ammutoliscono tra le lacrime. E con loro il
seminarista in vacanza.