Si chiama Joseph, ma non fa il
papa. Anzi, si direbbe che un po’ ce l’abbia pure con lui. Siamo all’indomani
del 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e dell’avvio
dell’Anno della Fede. Da bravo seminarista attento alle circostanze del momento
presente mi documento sulla storia del Concilio con un libretto comprato per
l’occasione. Alla stregua di qualche poeta romantico affacciato su mari di nebbia
e rovine gotiche in cerca di ispirazione mi sistemo bel bello in Piazza San Pietro
col libro nuovo di pacca. In realtà attendo amici e dissimulo pose
situazioniste rincantucciandomi tra le colonne del porticato del Bernini. Ma
c’è spazio per poche pagine perché nel frattempo arriva Joseph. Ha l’aspetto di
un reduce, uno di quei soldati vestiti di grigio topo dell’esercito di Cecco
Beppe. E’ austriaco ma ha sulle spalle il peso di qualche trauma, di una
disgrazia capitata in Italia. Vive per strada, ma veste distinto – nonostante i
calzoni corti- e con grande dignità. “Questi
preti non hanno umanität : basta guardarli”. Ce
ne sono più o meno per tutti. Visto il tipo, però, c’è poco da rispondere. “C’erano due uccellini caduti dal nido. Sono
passate suore, preti: nessuno si è fermato! Non hanno visto che avevano bisogno
di cura? Ho perso due ore per trovare il posto più vicino per farli curare. Poi
loro allevano e quando sanno volare lasciano liberi. Questi preti parlano molto
dolce, ma non hanno zenzo della realtà”. Con tutta la buona volontà mi accingo
a perorare la causa della santa chiesa cattolica. E’ una battaglia persa e la
storia di quei due uccellini mi ronza nella testa.

Si chiama Joseph e fa il papa. Il
giorno precedente, la sera dell’11 ottobre, si è affacciato sulla piazza colma
di gente, per lo più giovani con le candele accese in ricordo della fiaccolata
che cinquant’anni fa accompagnò l’apertura del Concilio e ascoltò il celebre ‘discorso
alla luna’ di Giovanni XXIII, quello che tutti ricordano per la ‘carezza ai
bambini’. Anche il Papa ha sulle spalle il peso di qualche trauma, porta con sé
“le tristezze e le angosce degli uomini
d’oggi” per usare il celebre attacco della Gaudium et Spes. Dalla camera dei ricordi è Joseph che parla, a
braccio e un po’ commosso : “Cinquant’anni
fa, in questo giorno, anche io sono stato qui in Piazza .. Eravamo felici .. e
pieni di entusiasmo. Il grande Concilio Ecumenico era inaugurato; eravamo
sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa”. Dalla camera
vaticana è il papa che parla: “In questi
cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si
traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire
strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche
la zizzania .. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella
Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con
tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: «il Signore
dorme e ci ha dimenticato»”. Parole che gelano la piazza canterina e ammansita
dal ricordo del Papa buono. “Il fuoco
dello Spirito Santo – prosegue il Papa - il fuoco di Cristo non è un fuoco divoratore, distruttivo; è un fuoco
silenzioso, è una piccola fiamma di bontà, di bontà e di verità, che trasforma,
dà luce e calore. Abbiamo visto che il Signore non ci dimentica... Cristo vive,
è con noi anche oggi, e possiamo essere felici anche oggi perché la sua bontà
non si spegne; è forte anche oggi!”.

Possibile che dopo cinquant’anni,
dopo il grande sforzo di aggiornamento attuato dal Concilio, dopo la poderosa
riflessione sulla Chiesa elaborata in quegli anni lo stesso Papa descriva con
parole così drammatiche la Chiesa e le sue vicissitudini? Forse anche di questo
c’era bisogno. Per quanti progressi si possano maturare nell’aggiornare
strumenti e strutture con essi non intacchiamo l’essenziale. Per quanto
numerosi possano essere i giovani che affollano le piazze (che bisogno c’è poi
di contarsi sempre?) o i cattolici che si rendono vivaci e presenti in
parrocchia o nella rete, non è con i numeri, né con post, né con tag o
cinguettii che si misura l’opera dello Spirito.
Certamente la storia passa per
i grandi della gerarchia ed i buoni e influenti teologi, ma gli ingranaggi
decisivi si scoprono nei luoghi più impensati, spesso nel grigio e nelle
tenebre in cui operano i santi e vivono i più piccoli tra i piccoli. Così,
infatti, dove non sarebbe arrivato il Concilio Vaticano I e oltre, è arrivata
una povera illetterata dei Pirenei. Poi da Lourdes, passando anche per Lisieux
(solo per fare un esempio noto a tutti) il testimone è passato a tre pastorelli
di Fatima a cui sono stati consegnati i misteri più gravi del secolo. La grande
storia si piega alla preghiera, cede il fianco a ciò che è nascosto ed umile
per confondere i potenti ed i sapienti di questo mondo. Così è stato anche nei
momenti più bui del secolo come insegnano Edith Stein, Padre Kolbe e François
Xavier Van Thuan. Nei piccoli, infatti, Cristo può parlare e rivelarsi con
maggiore forza e splendore. Altrimenti occorre spezzarsi, frantumare le proprie
sovrastrutture sul legno della croce per tornare come loro e abbandonarsi
completamente a Dio. “In un punto
decisivo della via cristiana la natura deve andare con Cristo alla morte. La
sua crescita rettilinea deve rompersi, la sua visione deve trasformarsi in
notte, la sua accurata compiacenza di sé in maltrattamento”. E un passaggio
nodale che è garanzia di maturità, che permette di operare quel cambiamento di
mentalità per cui non agiamo e pensiamo più come se Dio “fosse alle nostre spalle” e toccasse a noi programmare la via
migliore e più feconda, ma “camminiamo
in attesa aperta, verso di Lui”. Così
diceva Hans Urs Von Balthasar, il grande teologo in Chi è il Cristiano?: un testo acuto e dirompente composto nel 1965,
all’indomani della conclusione del Concilio. “Possiamo avvicinarci a Dio solo se, al di la di tutti i nostri propri
problemi, rimane in noi lo spazio libero per ciò che la sua volontà ha di
inatteso”. E’ una disposizione che passa per una vera e propria ‘espropriazione’.
Per la chiesa tale espropriazione, che pure si avvia nelle aperture al mondo
segnate dal Concilio, si trasforma in umiliazione. Un’umiliazione che chiede il
perdono, così come lo ha ripetutamente formulato Giovanni Paolo II nel suo
pontificato e soprattutto in occasione del Giubileo del 2000, ma è un’umiliazione,
prosegue il teologo “da cui viene
spontaneo il termine vergogna, e non ci si deve sforzare di liberarsene”. E
difatti, anche volendo, non è per niente facile liberarsene. Anzi, dalla radice
cattiva spuntano sempre nuovi polloni.

Quando nel 2010 volava verso
Fatima Benedetto XVI sembrava parlare proprio di questo ai giornalisti che lo
incalzavano sul terzo mistero: “anche
qui, oltre questa grande visione della sofferenza del Papa, che possiamo in
prima istanza riferire a Papa Giovanni Paolo II, sono indicate realtà del
futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano ... Il Signore ci
ha detto che la Chiesa sarebbe stata sempre sofferente, in modi diversi, fino
alla fine del mondo ... la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai
nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa ... Con una parola, dobbiamo
ri-imparare proprio questo essenziale: la conversione, la preghiera, la
penitenza e le virtù teologali. Così rispondiamo, siamo realisti
nell’attenderci che sempre il male attacca, attacca dall’interno e
dall’esterno, ma che sempre anche le forze del bene sono presenti e che, alla
fine, il Signore è più forte del male, e la Madonna per noi è la garanzia
visibile, materna della bontà di Dio, che è sempre l’ultima parola nella storia”.
E’ una visione della storia e della chiesa che non si recupera sui libri, né si
descrive con i numeri o le categorie degli analisti moderni: “la preghiera, la sofferenza, l’obbedienza di
fede, la disponibilità (forse non sfruttata), l’umiltà, sfuggono ad ogni
statistica”. E’ facile nei bar, come nelle sagrestie ( e perfino nei
seminari e/o collegi) smarcarsi dalla vergogna e dall’espropriazione parlando
di trame di palazzo, di berrette e partiti interni: “non è possibile – ammonisce ancora il vecchio Balthasar – che il cristiano voglia esigere e stare a
guardare come la Chiesa viene espropriata e umiliata, senza veder compiersi
questo salutare processo nella sua esistenza”.

50 anni dopo il concilio il Papa
invita a tornare sui testi, gli autentici interpreti dei segni dei tempi. Con
essi e con la fatica penata per elaborarli, il Concilio si “è preoccupato di far sì che la medesima fede
continui ad essere vissuta nell’oggi, continui ad essere una fede viva in un
mondo in cambiamento”. Le oscurità e le fatiche non verranno mai meno e sono
il banco di prova dei nostri entusiasmi apostolici. Anche i santi più ardenti e
coraggiosi ci si sono scontrati. San Giovanni Battista proclamava con parole di
fuoco che il Messia era vicino: “Già la
scure è posta alla radice degli alberi”! Ma poi, in attesa del supplizio,
mandò dalla sua cella i discepoli a chiedere conferma. San Francesco Saverio,
il grande evangelizzatore dell’Oriente, si diceva pronto a dare la vita per
Cristo e la Chiesa così come dice il Vangelo: “chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà”. Però, come scrive in
una lettera “quantunque il latino e il
significato in genere di queste parole del Signore sia facile da intendere”,
quando la situazione precipita davvero “tutto
si fa così buio che il latino, pur essendo tanto chiaro, comincia ad
offuscarsi, e in tal caso mi sembra che lo possa intendere solo colui al quale,
per dotto che sia, Dio Nostro Signore lo vuole palesare in momenti particolari
e per la Sua infinita misericordia”. Non a tutti il Signore chiede prove
così esigenti, ma a tutti chiede il salto della fede. E’ un salto difficile, ma
che apre alla speranza e alla gioia, perché, dice il Papa, “la fede vissuta apre il cuore alla Grazia di
Dio che libera dal pessimismo”. “Cristiano
– chiosa, invece von Balthasar – è l’uomo
che vive di fede, che cioè ha regolato tutta la sua esistenza sull’unica
possibilità apertagli da Gesù Cristo, il figlio di Dio, obbediente per noi
tutti fino alla croce: quella di partecipare al sì obbediente, che redime il
mondo, detto da Dio”. E se attorno alla Chiesa gravita il male, proprio
la feconda riflessione del Concilio ci
ha dischiuso una prospettiva ricchissima sulla chiesa come mistero, comunione
fra gli uomini e fra il cielo e la terra, chiesa come popolo chiamato
universalmente alla santità, orientato, nella storia, sulla via della salvezza.

Sui marciapiedi della cronaca,
invece, più precisamente quelli intorno a San Pietro, incrocio una signora
devota. Lei, vedova con molti figli, torna dalla preghiera in chiesa. “Eh..sono vecchia, sa? ottantun’anni!”.
E’ l’esordio tipico di chi vuole attaccare bottone e infatti la signora sorride
prosegue e racconta: “Io abito qua
vicino..ma sa che dalla terrazza vedevo papa Giovanni Paolo?”. Provo a
dribblarla, ma lei insiste e mi dice di averlo sempre visto pregare, lui solo
che camminava con il breviario in mano su una terrazza. Un papa, dunque, dei
giorni feriali e dei momenti qualunque che diventa maestro di preghiera. Sono curiose
le vie dello Spirito, ma passano quasi sempre per la carne e le parole degli
uomini. Il cristiano che tiene Cristo davanti a sé non può fare a meno di correre
incontro e insieme al fratello. “Tuttavia
– e per l’ultima volta cito lo scritto di von Balthasar- dentro il fratello che incontra egli scorge il Figlio dell’uomo che per
lui è morto e per lui interpone l’intercessione presso il Padre. Egli lo scorge
dietro ognuno, dietro il mondo intero. Di ciò si nutra la sua speranza. .. la
speranza dei cristiani non corre via dalla storia, ma lungo la storia corre
verso la fine”.
Gli occhi di Joseph – quello che
non fa il papa - pur nella maestosità della piazza berniniana, hanno saputo
scorgere due uccellini caduti dal nido. Con il suo accento tedesco prosegue la
sua requisitoria ora guardando dritto davanti a sé, come per concentrarsi o
rammaricarsi di come stanno le cose, poi, di tanto in tanto, volgendo lo
sguardo indietro ad una borsa che tiene accanto ai suoi piedi. “Chissà cosa ci tiene? Magari i pochi
spiccioli o qualche vestito..”. Ma poi, quando si alza per salutarmi scorgo
che nella borsa è avvolto un cucciolo: un cagnolino nero mezzo addormentato. Joseph
lo accarezza con una tenerezza infinita che stride con gli accenti polemici di
qualche minuto primo. “Si chiama Stella.
E’ molto, molto tenera”. La tenerezza è un linguaggio universale, anche gli
uomini più duri e arrabbiati finiscono per cedere di fronte ad un gesto di
tenerezza. Anche gli animali sono sensibili alla tenerezza e perfino le bestie
più temibili cedono di fronte alle coccole. Forse è per questo che quelle
parole di cinquant’anni fa sono rimaste nella storia e nei cuori di tutti: “portate una carezza ai vostri bambini..”.
Da chi custodisce la tenerezza ed ha occhi per le cose minime si può molto
sperare.

Il mio libro sulla storia del
concilio ha perso un po’ di interesse. Confesso che volevo saperne di più su
contrasti tra tradizionalisti e progressisti, conoscerne i nomi, le svolte e le
battute di arresto. C’è molto da leggere su questo. Ma che almeno tutto sia
propedeutico a leggere il mondo e gli uomini. E per questo ci vuole la vista
fine che allenano soprattutto la preghiera e l’amore. Così, nell’intreccio tra
luce e tenebre proprio della storia i piccoli hanno un ruolo privilegiato. A
loro, in modo particolare, papa Giovanni affidò la preghiera per il concilio:
ai bambini “la cui innocenza e le cui
preghiere a nessuno sfugge quanto valgano presso Dio, sia gli ammalati e i
sofferenti, persuasi che i loro dolori e la loro vita, assai simile ad una
immolazione, in virtù della Croce di Cristo si tramutano in una valida supplica,
in salvezza, in fonte di vita più santa per la Chiesa intera”. Messe da
parte le ri-letture, nuove attraenti letture ci aspettano.
Il Joseph papa, affacciato dalla
finestra, si sarà pure sentito in obbligo di citare il beato predecessore. Ma
in effetti, non poteva che concludere così: «Andate a casa, date un bacio ai bambini e dite che è del Papa».